LA FAVOLA DEL REDDITOMETRO (05 febbraio 2013)

Prendendo a pretesto il Redditometro, partiti che fanno parte dello stesso schieramento (anche perché altri non ce ne sono), fingono di trovarsi in disaccordo su qualcosa... così, tanto per tenere artificialmente in vita una campagna elettorale clinicamente morta. 

Intanto qualcuno, con un racconto di "fantasia" scritto nel febbraio del 2013 (ripreso con una nota risalente all'agosto dello stesso anno) e pubblicato in una raccolta uscita il 4 ottobre del 2015, tentava di accendere fin da allora l'attenzione sui pericoli di quell'abuso di potere che sta tornando di attualità. Purtroppo, nell'indifferenza dei più sguzza l'arroganza della politica, la quale approfitta del fatto che quelli con la "vista più lunga" finiscono spesso per essere anche i meno ascoltati... e sennò la censura a cosa servirebbe? 


La favola del redditometro.

Questa storia è puro frutto della mia fantasia.

Si svolge in una grande città del sud Europa, per l’esattezza in un palazzaccio orrendo degli anni ‘70, fatto di cemento armato screpolato e infissi in anticorodal grigio tristezza che, della lucentezza originale del metallo, non hanno conservato neppure il ricordo. I vetri sono sporchi e la trasparenza rimanente non consente agli impiegati di lavorare senza le luci al neon accese, nemmeno nelle migliori giornate di sole.

Lavorare, sì, perché questo palazzaccio brutto, fatto di tanti piani, ricoperto di smog da non capire di quale colore fosse stato tinteggiato tanti anni fa, è un alveare riempito di uffici stipati uno sopra l’altro. Si trova in angolo fra due grandi viali che da mattina a sera sopportano un carico di traffico fuori dalla loro portata, tant’è che il mega impianto semaforico messo lì a regimentarlo non ce la fa e, gli automobilisti e i motorettisti, che con arroganza guidano dei moderni bidet a due ruote, devono continuamente farsi le loro ragioni a colpi di clacson.

Gli uffici che compongono l’alveare sono quelli delle tasse.

Passare là dentro una giornata renderebbe, quantomeno, di pessimo umore un santo, immaginiamoci cosa possa succede al senso di aggressività di un comune mortale recluso per otto ore, ogni giorno dal lunedì al venerdì, in quella gabbia di squallore.

Il protagonista di questa storia inventata lavora in quel palazzaccio brutto e triste dove fa il capo-team.

Capo-team, che si pettina come Briatore e si veste come Marchionne, un giorno si occupa del co-protagonista di questa storia inventata, che per semplicità, e per non dovermi inventare un nome, ho deciso di chiamare Nostro Amico.

Nostro è un gran lavoratore, padre di famiglia onesto e parsimonioso, che ha condotto una vita modesta e senza sfarzi, insieme alla moglie, pure lei impiegata.

Insieme, e con l’aiuto dei genitori di lui conviventi, hanno cresciuto la loro unica figlia nella vecchia, grande e luminosa casa di famiglia che viene tramandata di padre in figlio da quattro generazioni e dove, la più vecchia fra quelle in vita, per una sorta di regola non scritta, coltiva l’orto da cui raccolgono frutte e verdure, fresche e saporite.

Ma Nostro Amico non è una persona priva di colpe. Anzi, ne ha una gravissima. Adora il mare!!!

Così, superata la soglia dei suoi quarant’anni, decide di comprarsi una barca. Non un panfilo, ma un cabinato in resina usato e tenuto con gran passione dal precedente proprietario. Il suo entrobordo è così sguarnito di cavalli da consentirgli a malapena il passo di un buon patino a remi.

Ma al Nostro, che ama il mare, non importa niente.

Anzi, è convinto che il mare vada goduto proprio a quella velocità e che coloro che navigano su un motoscafo, di quelli che fanno le onde grosse grosse e vanno via con la prua rivolta al cielo, del mare non abbiano proprio capito una… una… niente, va, ... non abbiano capito proprio niente!

Ahhh, la vela! Quella sì che sarebbe bella, … a potersela permettere!

Ma oltre alla vela, Amico non può permettersi nemmeno di pagare l’attracco e la sosta in alcun porto e tiene la barca su un carrello, di quelli fatti apposta, con un sacco di rulli su ciascun lato. Ogni volta che decide di metterla in mare deve trainarla con la sua utilitaria, arrancando su e giù per le colline che separano la città dal mare, così da risparmiare i soldi del pedaggio autostradale.

Ma a Capo-team pettinato come Briatore e vestito come Marchionne, quella barca, non intestata a una società di comodo, non portata in detrazione dalle tasse, proprio non va né giù né su.

Così avvia una procedura burocratica con la quale chiede a Nostro di dimostrare come possa, lui!, onesto lavoratore, permettersi (o meritarsi?!) un lusso del genere.

Il nostro lo può dimostrare e, dati e conti alla mano, lo dimostra: l’ha comprata con i risparmi di una vita!

Per farlo deve però riempire dei moduli scritti con una lingua per lui del tutto nuova e sconosciuta: il burocratese. E così si rivolge, a proprie spese, a un commercialista, che, manco a farlo apposta, costa come un posto barca.

A capo-team la cosa continua a non piacere, tanto da non voler tener conto dei risparmi accumulati in una vita di sacrifici e di rinunce. Non contento di rapportare l’acquisto della barca al reddito di un solo biennio di Nostro, fa una proiezione di reddito legata al tenore di vita presunto che, a suo dire, chi ha la barca per forza deve avere. Il Nostro è incredulo ma gli viene spiegato che se uno ha la barca, per la legge di quello Stato, va a cena nei ristoranti più cari anche se mangia a casa e fa la spesa al discount; da qualche parte nasconde una Bentley anche se va in giro con la vecchia Matiz a GPL; si veste firmato; va dal barbiere tutte le mattine ecc…

Alla fine dei suoi conti, il ligio & bigio capo-team, tira fuori una presunzione di reddito da cui scaturisce un’evasione fiscale, altrettanto presunta, di una montagna di soldi.

Montagna di soldi che, presunta o dimostrata, virtuale o reale, va pagata e ci vanno pure aggiunte le sanzione e gli interessi.

Ancora Amico non crede che avrà una punizione per essersi tolto una voglia nella vita, dopo averne soffocate molte altre per metter via quel gruzzoletto, convinto com’è di vivere in uno Stato di Diritto e che, quindi, non verrà condannato per una presunzione di colpa.

Ma ligio & bigio, freddo, spiega a Nostro, con mal celata goduria, che ha due sole alternative: 1) aderire subito rinunciando ad ogni forma di rivalsa e pagare la metà di ciò che scaturisce dai quei conti astratti; 2) ricorrere per le vie legali ordinarie, nei tre gradi di giudizio previsti dalla legge, facendo valere la sua innocenza avallata da numeri, questa volta non presunti ma tangibili. Intanto, però, iniziare a pagare le cartelle erariali e solo alla fine, con l’esito positivo del ricorso, potrà riavere indietro il maltolto con tanto di interessi legali (nel contesto della storia parlare di “legali” fa ridere ma non posso farci niente, si chiamano così!).

Nostro, che è un gran testardo, vorrebbe andare fino in fondo, per difendere, oltre se stesso, l’onorabilità di uno Stato, al quale, ma ancora per poco, si sente di appartenere: onorabilità messa in dubbio proprio da un suo funzionario.

Il carico da undici per congelare ogni idea idiota di ricorso lo cala il commercialista. Da bravo professionista informa il Nostro che i ricorsi costano. E già che c’è gli presenta il conto (in buona parte “a voce!”) per averlo assistito in quell’inizio di vicenda. Madonnamia!, quel conto moltiplicato per tre gradi di giudizio più l’avvocato patrocinato in Cassazione per il terzo grado sono più di quello che gli sta chiedendo Capo-team.

La storia giunge qui al termine.

Il Nostro, reo di aver appagato un desiderio non concesso al suo ceto sociale, rinuncia all’oggetto acquistato ed usa il ricavato per iniziare a pagare la pena, per una colpa che non ha, e che salderà con altri sacrifici. Ma la cosa che gli duole di più è portare il marchio infamante di evasore fiscale. Marchio reso ancora più bruciante da quella “Pubblicità Pro-fumo negli occhi”, promossa da un governo che nessuno ha eletto, ma che è legittimato dall’appoggio dei partiti; quegli stessi partiti che hanno “ripulito la Società” portando in Parlamento i migliori rappresentanti del peggior malaffare.

Infatti, a dimostrazione del pregiudizio su chi non paga le tasse, in quei giorni circolava uno spot, apparentemente contro l’evasione fiscale ma in realtà propagandistico per il governo in carica, il cui protagonista, che avrebbe dovuto rappresentare l’evasore tipo, non è ben rasato, vestito in giacca e cravatta e con la ventiquattrore in mano, ma, per una libera licenza del regista (mettiamola così), è impersonato da un attore che ha tutto l’aspetto di chi si alza la mattina per andare a lavorare.

A Nostro, che si sente umiliato come chi si è permesso di infiltrarsi in una festa che non è alla sua portata e viene buttato fuori a calci nel sedere; a Nostro, al quale lo Stato con i suoi rappresentanti (quello stesso stato in cui credeva e ora non crede più), ha insegnato che il rispetto delle regole non mette al riparo da una condanna arbitraria, non rimane altro da sperare che i suoi sacrifici non vadano sprecati e giovino almeno alla propaganda dei partiti di governo e, perché no, alla carriera di capo-team.

In questo racconto più volte ho ricordato che la storia è tutta inventata ma non ce ne sarebbe stato assolutamente bisogno e, oltretutto, non può essere ambientata in Italia che è un Paese Civile e, in un paese civile, una storia del genere, non può accadere. O sbaglio?

Dedicato ai tutti i capoufficio della P.A., al limite anche ai team leader ma, per l’amordiddio, non ai capo-team.


Ma non c’è fine al peggio. C’è il paradosso invece, ovviamente non nella storia, bensì nella realtà. Così, mentre i vari capo-team incentivati, pare, anche da scatti di carriera o gratificazioni economiche, estorcono soldi ai cittadini onesti, il governo (quello che si scrive con “g” minuscola), condona 98 miliardi di evasione ai signori delle slot-machine. Intanto, minacciosa, tuona la revisione del redditometro. Che la politica si sia ravveduta? Macché, poveri cittadini, è in arrivo …



Il nuovo redditometro, becchi e bastonati
Oggi, 19 agosto 2013, nella piena selva oscura di una crisi economica che non trova fondo, il Governucolo del Partito Unico vara la versione 2.0 del redditometro.

Una sorta di caccia alle streghe con cui infliggere pene arbitrarie ai cittadini perché, si sa, chi è debole di contenuti, si fa forte con l’arroganza. Una caccia alle streghe nella quale gli evasori veri avranno il ruolo di comodi spettatori dalle loro residenze in qualche principato amico, dai panfili “battezzati” su qualche scoglio sperso nel Pacifico, dalle industrie delocalizzate, dall’ufficio del direttore di banca in qualche paradiso fiscale.

Un affondo ulteriore ai fianchi dell’economia reale e linfa vitale per la crisi economica.

Crisi della quale il potere ha bisogno nel momento in cui sente mancargli la terra sotto ai piedi tremanti. In fondo la storia insegna: la Chiesa sul “Timor d’Iddio” ha creato il suo potere millenario e, in tempi più recenti, potentati meno “celestiali” son ricorsi al terrorismo (erano gli anni settanta) o alle stragi di mafia (intorno al 1993) per consolidare o affermare un dominio, evidentemente, non meritorio o lecito.

Infine, ma non ultimo, “grandefratellizare” tutta la cittadinanza può sempre tornare utile. Una sorta di “Metodo Boffo” preventivo e a pioggia. Oltretutto, e non a caso, nella versione 2.0 del redditometro sono stati introdotti gli strumenti di conversazione “massiva” (Iphone, Smartphone, tablet, ecc..), non certo come indicatori di ricchezza (ce ne sono modelli acquistabili con poche decine di Euro) ma in quanto unici deterrenti all’instradamento controllato delle menti dei sudditi, operato magistralmente dai media di regime.

Non sto dalla parte delle conversazioni in rete o, più in generale, per quelle che non presuppongono almeno un piano d’appoggio condiviso per i boccali della birra. Anzi!, mi mancano le mezze nottate passate nella “Ritmo D” di’ babbo di’ Girozzi: i vetri appannati, i finestrini a spiraglio, “L’Avvelenata” o “La Locomotiva” poco più che soffiate fuori dal mangianastri. Ricordo la stessa profondità d’enfasi che parlassimo di Convergenze Parallele o di quella che la dava a tutti; a tutti sì, ma non a noi!

E soprattutto mai venivamo interrotti da una finestrella che annunciasse un nuovo intruso in chat: al più ci poteva scappare un “effallagirarecazzo”.

Oggi, 19 agosto 2013, penso a chi rinuncia a una vacanza perché “incongrua” e allo stagionale del turismo che perde il lavoro; a chi rinuncia alla nuova Punto e fa riparare la vecchia Prisma dall’amico meccanico, autodidatta del quattro tempi, nel garage sotto casa. Penso all’operaio di Mirafiori cassaintegrato; a chi si farà curare i denti solo da dentisti disposti a farsi pagare in nero; ai bisognosi che non avranno i servizi essenziali perché non ci sono soldi.

Non sto dalla parte del consumismo, sia chiaro. Lo reputo un sistema economico che ha fatto il suo tempo e che vada sostituito, al più presto, da un sistema sostenibile di decrescita che ci indirizzi verso un economia a misura d’uomo, a sfondo sociale e non speculativo e finanziario. Viviamo in una società in cui il denaro è il più grande generatore d’infelicità collettiva e, al tempo stesso, facciamo di tutto perché continui a esserne il padre-padrone incontrastato. Ciò non toglie che rilevi una grande contraddizione in una classe dirigente ottusa, che da un lato è capace di vedere solo la crescita infinita del PIL come fonte di salvezza e di felicità, dall’altra vara uno strumento che mortifica proprio quella crescita.

Allora mi viene da pensare che ci sia ancora un altro scopo dietro al redditometro e che sia quello di frustrare e colpevolizzare la gente comune. Quella gente che tutti i giorni paga un prezzo altissimo all’evasione vera, alla corruzione, agli sprechi, alla conclamata incapacità della classe dirigente. Classe dirigente fatta di politicanti così meschini da inventarsi un marchingegno fascisteggiante perché si diffonda un messaggio subliminale che ripeta all’infinito: “la colpa non è nostra ma dei cittadini, massa di disonesti”. Siamo vittime e ci vogliono moralmente colpevoli: becchi e bastonati.

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