PRIMO CAPITOLO - L'Iris che fa i miracoli

 

“... Per capire che il morto fosse morto non serviva la
laurea e nemmeno un genio...”

Illustrazioni di Giacomo Carletti

La primavera, ormai, era ostentata solo dalla forzata resistenza opposta dai calendari appesi alle pareti, ma era già chiaro che aveva fatto cartella e si era preparata a smobilitare, lasciando spazio alla giovane estate che impaziente le premeva addosso spingendola via. A fare eccezione non era certo il clima piacevole di quel sabato mattina del millenovecentonovanta. E non fecero eccezione nemmeno Mariella e Cristiano che, come ogni santo giorno non lavorativo messo in terra dal Signore, uscirono per la passeggiata con il loro cane.

Erano d’accordo, fino dalla sera prima, che avrebbero affrontato in maniera seria la questione del matrimonio. Si erano fidanzati molto giovani e, quasi senza accorgersene, in maniera sfumata e sicuramente senza averlo fatto apposta, si erano ritrovati a convivere nella grande casa di Pasticci insieme ai genitori e ai fratelli di lui. Ma c’era un problema: la famiglia Acciaioli era fra le più in vista del paese, storicamente benestante e devota alla chiesa, più che a Dio, fino a rasentare il patetico. Quella famiglia “allargata” al di fuori dei canoni conclamati non era più tollerata da Gino, il padre di Cristiano, che non perdeva occasione per colpire, con frecciate intinte nel curaro, quello che lui definiva uno status al limite del peccaminoso, con l’aggravante di essere consumato sotto il suo tetto. Era evidente a tutti, ma mai nessuno ebbe il coraggio di farglielo notare, che la vera preoccupazione del signor Acciaioli erano le chiacchiere della gente e in particolare, proprio da quando Mariella aveva preso a dormire sempre più spesso da loro, quelle dei parrocchiani che incontrava ogni domenica mattina e, dagli sguardi dei quali, sentiva partire dei dardi infuocati che gli pungevano la carne.

Dal viottolo l’allevamento di bestiame del signor Solinas non si vede, ma quella mattina arrivava chiaro l’odore genuino e buono di lettiera dei bovini. Lo trasportava l’aria svegliata dal sole tiepido che, riscaldandola, la faceva muovere leggera. Mariella e Cristiano avevano lasciato l’automobile lungo la via Athos Bigongiali, sulle colline di Pasticci, per addentrarsi su per i sentieri di campo e raggiungere il laghetto artificiale, scavato dalla Forestale con la funzione di riserva idrica da utilizzare nella lotta agli incendi, dove il cane avrebbe fatto la sua bella nuotata. Quell’odore caldo e denso, quasi da essere percepibile al tatto ma non tanto da appesantire e limitare il moto dell’aria, li avvolse. Lei rallentò il passo per godere a pieni polmoni di quel manto olfattivo; alzò il mento e sorrise. Lui, avvolto più dalla questione del matrimonio che dall’odore bovino, si ritrovò qualche passo avanti senza essersene accorto.

Ancora più avanti era Aroha, la giovane finto-labrador, che si era improvvisamente fermata al centro del sentiero con una zampa anteriore alzata e una zampa posteriore tesa all’indietro, come un centometrista ai blocchi di partenza. Stava impettita Aroha, con il collo allungato in avanti e dal naso, puntato leggermente verso l’alto, aspirava grandi volumi d’aria che avrebbero potuto sbiellare uno spirometro, se qualcuno glielo avesse applicato.

Mariella per un attimo, orgogliosa del portamento mostrato dal cane, pensò che quel nome da donna maori le stava proprio bene e che lo sapeva portare con tutta la dovuta dignità. L’istante successivo, mentre Cristiano stava ancora cercando di capire cosa volesse dire la parola matrimonio, lei si rese conto che dietro la leggera curva del sentiero poteva esserci qualcuno e che, quel qualcuno, avrebbe potuto avere paura di Aroha… per quanto innocua più di un peluche, che qualche acaro lo nasconde sempre.

«Aroha!» gridò la ragazza bloccando di colpo la voce sulla “a” finale per dare forza al richiamo; «Resta!», proseguì con dolce fermezza per trasmettere tranquillità all’animale senza sminuire l’autorità dell’ordine dato. Nel contempo allungò il passo, ma senza correre, per metterle il guinzaglio. Cristiano, intanto, aveva aperto la bocca e si stava riscuotendo dal torpore in cui il pensiero di quel salto nel buio (in altro modo non riusciva a definire il matrimonio) lo aveva trascinato. Aroha senza distogliere la concentrazione si lasciò accalappiare ma, l’istante successivo, con una forza tale da far credere che volesse aumentare la velocità di rotazione del pianeta con le sue zampe, stava già tirando verso un qualcosa che solo lei aveva individuato.

Il segnale d’allarme, ancora prima che la vista avesse finito di scannerizzare ed inviare al cervello l’immagine appena entrata nel suo campo visivo, si attivò in Mariella attraverso l’irrigidimento della peluria del collo e da una calotta fatta di spilli; un’infinità di spilli, frapposti fra il cranio e la cute, che spingevano verso l’esterno come se volessero uscire. Per un’istante la giovane donna sentì la testa espandersi come una frittella di riso quando viene immersa nell’olio bollente. Poi, appena un centinaio di metri più avanti e steso a terra al margine destro del viottolo, vide il corpo di un uomo con la faccia affondata nel terriccio della cunetta laterale.

Cristiano e Marinella tornarono indietro ripercorrendo il viottolo per alcune centinaia di metri, poi risalirono il dolce crinale della collina camminando di passo svelto su quelle che, più di un sentiero, erano le tracce lasciate dal passaggio sporadico di qualche macchina agricola. Superata la piccola altura videro i raggi del sole rimbalzare vivaci sui tetti in lamiera zincata dei bovili e del caseificio dell’Azienda Solinas. Quando la raggiunsero Giovanni Solinas era alla guida di un grosso trattore usato per spostare le rotoballe con le quali i due operai indiani avrebbero foraggiato il bestiame chiuso nei recinti. I due fidanzati avevano percorso l’ultimo tratto correndo e, seppur in leggera discesa, erano arrivati affannati oltre che sconvolti per quello che avevano visto.

Giovanni capì che era successo qualcosa di grave ma quella storia del morto gli pareva sinceramente esagerata. Per non sbagliare o, come si dice da quelle parti, per non saper né leggere e né scrivere, li accompagnò nel suo ufficio dove lasciò che fosse Cristiano a telefonare personalmente ai Carabinieri.

Daniele Tempestini, appuntato, e Fausto Pierobon, carabiniere, avevano preso servizio alle due di notte. Nelle settimane precedenti c’erano state varie denunce di furti perpetrati nottetempo da una o più bande di ladri che, arrampicandosi sui davanzali dei piani bassi, si insinuavano negli appartamenti rubando soldi e piccoli oggetti di valore. Per tutta la notte i due carabinieri, con un’auto civetta, avevano pattugliato le strade dei quartieri più popolosi dell’Oltrelago di Parvenze e adesso, alla pasticceria La Poderosa, stavano facendo colazione e discutevano. L’oggetto del contendere era sempre lo stesso, o meglio, lo stesso di ogni volta in cui facevano colazione insieme: il Pierobon difendeva a spada tratta la supremazia, su ogni altro “pezzo” dolce, del bombolone con la crema; per l’appuntato invece niente, e lo sottolineava scandendo una ad una tutte le lettere di quel “n-i-e-n-t-e”, poteva essere paragonato al maritozzo con la panna.

Quando suonò il Teledrin appeso alla cintura del collega, Fausto aveva ancora in mano mezzo bombolone che spinse in bocca facendone un solo boccone. Con una salvietta si pulì le mani e la bocca dallo zucchero e andò verso la porta del locale. Il Tempestini, borbottando qualcosa di incomprensibile ma facilmente interpretabile, gettò nel cestino dei rifiuti tre quarti abbondanti di maritozzo; poggiò sul banco una banconota da cinquemila lire e ad ampie falcate, consentite dalle sue gambe lunghe, raggiunse il compagno di pattuglia. Sul banco, oltre al resto, rimasero anche due cappuccini belli caldi. Salirono sulla Fiat Uno di servizio che il suono della chiamata “selettiva” stava ancora uscendo dall’altoparlante della radio di bordo:

«Avanti, comunicare» rispose l’appuntato.

«Portatevi in via Athos Bigongiali a Pasticci, ove in una traversa di campo è stato ritrovato un cadavere di sesso maschile; una coppia con un cane vi aspetta sulla strada asfaltata per indicarvi il luogo esatto. Abbiamo provveduto ad inviare sul posto anche un’ambulanza», fu la disposizione dell’operatore in servizio alla Centrale Operativa dell’Arma a Parvenze.

Quando i due carabinieri arrivarono sul luogo del ritrovamento, il medico della Pubblica Assistenza era già accovacciato a fianco delle spoglie della vittima. Pochi minuti dopo arrivò anche il maresciallo Caglioma, comandante della Stazione di Pasticci. Per capire che il morto fosse morto non serviva la laurea e nemmeno un genio; il dottore fu comunque molto professionale nel riferire che il corpo apparteneva ad una persona di sesso maschile, rinvenuto in posizione prona e con gli arti disallineati. La morte doveva risalire ad almeno otto ore prima e lo si capiva, precisò il medico, dal rigor mortis già evidente e dal colore violaceo delle mani. Prosegui:

«La faccia non è visibile. Presenta una profonda ferita lacero contusa alla regione occipitale, inferta con un’arma da taglio o comunque con qualcosa di molto pesante, tipo un’ascia. Sulla schiena ci sono quattro fori di proiettile sparati con un’arma da fuoco; un altro si trova appena sotto l’orecchio destro».

«L’alone di bruciatura intorno ai fori farebbe intendere che i colpi sono stati sparati da distanza ravvicinata», puntualizzò il maresciallo cercando con gli occhi la conferma del medico.

«Per quello che posso saperne io direi di sì, ma non sono certo un esperto in materia balistica. Quello che posso ipotizzare è che la causa della morte sia il colpo alla base cranica. Gli spari, secondo me, sono successivi altrimenti intorno ai fori ci sarebbe più sangue».

«L’assassino quindi voleva essere sicuro del buon fine della sua bravata… o, forse, i colpi di arma da fuoco sono una sorta di esecuzione postuma; una sorta di firma o di messaggio per chi deve intendere» ipotizzo il maresciallo.

«Di certo» concluse il medico «l’omicidio non è stato commesso qui: a terra ci sarebbe un lago di sangue. Il medico legale comunque aggiungerà molti dettagli indiscutibili alle mie supposizioni».

«Per quello che mi riguarda potete andare» disse garbatamente il Caglioma, riferendosi a tutto l’equipaggio dell’ambulanza, che stava gironzolando e lasciando milioni di tracce sul teatro del rinvenimento: «Appena l’avrà preparata, se non le dispiace, vorrei avere una copia della sua relazione di servizio» e tese la mano al medico.

Dino Solinas era arrivato a Pasticci dalla Sardegna alla fine degli anni ’cinquanta, portandosi appresso tutta la sua ricchezza: una donna straordinaria e un gregge di un centinaio di pecore. Qualcun altro, nel frattempo, aveva fatto la sua migrazione dalle terre sulle colline di Pasticci, fino ad allora coltivate, verso le fabbriche e i capannoni che stavano nascendo come funghi dopo una pioggia d’autunno nella pianura attorno al lago di Parvenze.

Lo spazio lasciato libero da qualcuno diventa, inevitabilmente, l’habitat ideale per la proliferazione di qualcun altro, così il Solinas dapprima si insediò quasi abusivamente in un fienile abbandonato, facendo pascolare le sue pecore nei campi trascurati e oramai incolti. Con il tempo regolarizzò la sua posizione con i padroni della cascina e del podere, fino a rilevarne successivamente l’intera proprietà e ad impiantarci l’azienda zootecnica e agroalimentare oggi diretta dal figlio Giovanni, diventata un fiore all’occhiello per tutta la zona tanto che, per ben due volte, ha catturato le attenzioni della trasmissione Linea Verde. Adesso il vero business l’azienda lo fa con i prodotti caseari e con la carne dei bovini. Giovanni Solinas continua anche ad allevare un ristretto numero di ovini per la produzione di formaggi, tutti prodotti di nicchia per qualità e prezzo, e qualche suino con i quali soddisfa le necessità familiari e, a malapena, un piccolo commercio limitato alla cerchia degli amici.

Giovanni non era convinto che, a una manciata di centinaia di metri in linea d’aria dalla sua azienda, potesse esserci un morto ammazzato sul sentiero. Per questo aveva interrotto il suo lavoro e accompagnato Cristiano e Marinella nel percorso a ritroso. Adesso però era l’ora di tornare all’azienda e riprendere da dove era rimasto; le bestie avevano fame e i due indiani non erano autorizzati ad usare il trattore:

«Maresciallo, se non ha bisogno di me tornerei al mio dovere» disse, dopo essersi qualificato ed aver spiegato il motivo per cui si trovava lì.

«Vada pure Solinas e grazie» rispose il carabiniere, «avrò bisogno di lei ma non adesso… anzi, mi chiami lei la prossima volta che macella un maiale». Poi, mentre l’allevatore si stava già allontanando, ebbe un ripensamento:

«Aspetti Solinas, l’accompagno alla sua azienda con la macchina. Mi segua…» …e rimarcò l’invito indicando l’autovettura militare.

Prima di allontanarsi verso la fattoria, il maresciallo diede disposizione che venisse avvisato il magistrato e richiesto l’intervento della squadra per i rilievi scientifici.

«Daniele!» chiamò poi rivolgendosi all’appuntato.

«Comandi!», rispose l’appuntato. Il rapporto di amicizia personale fra i due uomini non travalica mai il rispetto della forma professionale.

«Proteggete lo scenario e per il momento prelevate solo i documenti dalle tasche della vittima; segnate le tracce di pneumatico lasciate dall’ambulanza finché sono ancora evidenti, tutte le altre fatele rilevare dai tecnici. Poi convoca in caserma per oggi pomeriggio i due ragazzi che hanno ritrovato il cadavere. Io vado a togliermi un sassolino da una scarpa e torno».


In macchina, andando verso la fattoria, Sergio Caglioma spiegò a Giovanni di cosa aveva bisogno: gli era venuta l’idea di salare in proprio un paio di chili abbondanti di rigatina ma, per farlo, gli serviva un pezzo di pancetta fresca che avrebbe speziato e stagionato da solo (o con l’aiuto dell’amico Giampa Antonini), secondo una ricetta tramandata di generazione in generazione e che non voleva si arenasse proprio alla generazione dei suoi genitori. Nell’immediato però, aveva bisogno di usare il telefono del Solinas per chiamare il caporedattore della cronaca locale de La Finzione, il quotidiano di Parvenze:

«Dottor Faria, abbiamo rinvenuto il cadavere di un morto ammazzato sulle colline di Pasticci, le sto facendo la cortesia di avvisarla per primo. Se arriva velocemente mi troverà ancora sul luogo e le fornirò tutti i dettagli in anteprima».

«Mi dispiace Maresciallo, purtroppo adesso sto lavorando a un articolo che uscirà sul giornale di domani. Come lei m’insegna, con il referendum del due e tre giugno del millenovecentoquarantasei, gli italiani scelsero la Repubblica ma i risultati furono ufficializzati dalla Corte di Cassazione il giorno dieci e, proprio domani, ne ricorre il quarantaquattresimo anniversario. Per questo abbiamo in programma di uscire con un’edizione a tema che dia il giusto risalto all’evento. Oggi, tutti noi, ci stiamo lavorando».

«La comprendo perfettamente: un quarantaquattresimo anniversario di un evento succede una volta sola nella storia. Pensavo di farle cosa gradita avvisandola; la terrò presente per il prossimo omicidio, con la speranza che l’assassino stia più attento a non farlo coincidere con l’anniversario dell’uscita di un numero della Gazzetta Ufficiale».

«Il mio lavoro, caro maresciallo, è anche saper dare il giusto risalto alle notizie: come lei m’insegna un drogato ammazzato non è notizia che fa tiratura».

«Pensavo che lei si interessasse di informazione e non di tiratura. Dottor Faria, io non ho ancora visto il volto della vittima e nemmeno i suoi documenti; lei sa già che si tratta di un drogato. Sa qualcos’altro che dovrei sapere anch’io?»

«No, era solo per sminuire. Chi vuole che abbiano ammazzato a Pasticci? Non è luogo di delinquenza».

«Il suo compito non è quello di sminuire o accrescere, ma quello di raccontare e possibilmente farlo con obiettività. Stabilire dove sta la delinquenza invece spetta a me e ho intenzione di farlo con tutti i mezzi che il Diritto mi mette a disposizione, compreso, se mi gira, mandarla a prelevare e trattenerla in stato di fermo in attesa di interrogatorio per la sua affermazione di poco fa…» e, prima di chiudere la conversazione, aggiunse «…Come lei m’insegna!» Il sassolino dalla scarpa se l’era tolto: poteva tornare ai suoi compiti e alle indagini.

La mattina seguente sulle pagine de La Finzione c’era un trafiletto in “cronaca”, poche righe, per dare notizia del cadavere ritrovato sul sentiero in collina; niente, come era scontato, per commemorare il quarantaquattresimo anniversario dell’ufficializzazione dei risultati del referendum del ‘quarantasei.

Quello stesso pomeriggio invece, Mariella e Cristiano, puntuali come l’influenza a novembre, si presentarono alla Stazione dei Carabinieri di Pasticci. A riceverli, insieme al maresciallo Caglioma, c’era quel carabiniere secco come la morte e lungo come la fame che, la mattina, avevano accompagnato sul luogo del ritrovamento del cadavere. E anche lì, in caserma, era in borghese come la mattina perché, l’appuntato Daniele Tempestini, aveva abbondantemente terminato il suo orario di lavoro. A chiedergli di partecipare a quella deposizione era stato lo stesso Caglioma.

*****

Sergio Caglioma e Daniele si erano conosciuti appena due anni prima quando, entrambi, erano in forza al Nucleo Operativo Oltrelago di Parvenze, rispettivamente con il grado di brigadiere il primo e carabiniere, appena uscito dall’addestramento, il secondo. Ma un conto è conoscersi e altro sono la stima, la fiducia e l’affiatamento.

A Parigi, quella sera, la gente nelle piazze dava seguito alle parate del giorno proseguendo fino a notte i festeggiamenti del centonovantanovesimo anniversario della presa della Bastiglia; a Parvenze, invece, pareva che il caldo dell’estate avesse rubato le eliche ai motori del tempo. La movida cittadina si era spostata tutta nei locali della costa o sulle spiagge, dove i giovani, armati di chitarra e di ormoni impazziti, si riunivano al lume delle stelle.

La Ritmo color pelle di daino, con targa civile, gironzolava per le vie semideserte di Parvenze quasi senza meta ma, il giovane brigadiere Caglioma, sapeva bene quali erano i luoghi da battere… E anche dove guardare!

Oltrepassata la Torretta di San Rosario, antica porta e punto di avvistamento sulla fortificazione della città, il Lungolago si distanzia dalla riva per lasciare spazio ad un giardino pubblico frequentato, durante il giorno, dai pazienti e dal personale sanitario del presidio medico che vi si trova proprio di fronte. Di notte invece, complice un illuminazione propria inesistenze, diventa una sorta di terra di nessuno.

«Daniele, passata la Torretta vai piano ma non troppo da farci “riconoscere”» disse Sergio al collega che guidava la Fiat senza le insegne dell’Arma: era la prima volta che usciva in coppia con il Tempestini. A renderlo teso non era la sfiducia nel collega; anzi, la faccia sveglia e lo sguardo sereno di quel ragazzo alto e magro, appena aggregato alla Compagnia di Parvenze Oltrelago, erano rassicuranti. A preoccuparlo era invece la mancanza d’intesa, inevitabile fra due persone che non hanno mai operato insieme e che, a volte, può diventare un bel problema… specialmente in quel mestiere. Ma questo pensiero non distrasse certo l’occhio del brigadiere, abituato a cogliere, anche nel buio, i movimenti sospetti. E li colse.

Subito il Caglioma non disse niente, anzi, non ebbe proprio alcuna reazione. Non voleva che un suo gesto o una sua esclamazione potessero provocare una reazione istintiva del militare alla guida e, di conseguenza, che un colpo di freno o un semplice rallentamento della vettura di servizio, mettesse sul chi va là la persona sospetta che aveva appena visto muoversi fra gli alberi del piccolo parco.

Alla fine del giardino pubblico, sopraelevato di qualche gradino rispetto al piano viabile, le due rive si riavvicinano e, il corso d’acqua, da lago torna ad essere fiume. E’ lì che si trova il Ponte Faliero Pucci, il primo ponte a valle del lago che unisce la zona chiamata Oltrelago al centro storico vero e proprio di Parvenze. Daniele aveva già messo la freccia e stava per svoltare sul ponte.

«Torniamo indietro» disse il Caglioma al suo compagno, «gira intorno all’isolato, senza rifare tutto il perimetro del lago e parcheggia prima della Torretta di San Rosario; da lì andremo a piedi fino ai giardini». Poi spiegò cosa aveva visto, ma non poteva prevedere come si sarebbe evoluta la situazione nel frattempo e quindi, preordinare un piano d’azione, era praticamente impossibile: bisognava improvvisare. “Ecco a cosa serve l’affiatamento”, si disse fra sé il brigadiere.

La transumanza verso le località di vacanza era iniziata e, nonostante fosse martedì sera, non fu difficile trovare lo spazio per parcheggiare l’auto lungo il muretto che costeggia il lago. Prima di scendere il brigadiere Caglioma avvisò la Centrale Operativa e poi, scavalcata la spalletta, scesero lungo la scarpata erbosa che argina il lago fino a raggiungere la pista di servizio, lambita dalle acque solo nei periodi di piena, e la percorsero per aggirare la cinta muraria. La luna, le stelle e i lampioni della città riflettevano la loro luce sullo specchio d’acqua garantendo ai due militari una visibilità più che sufficiente. Arrivati più o meno in corrispondenza del punto in cui il Caglioma aveva notato il tipo sospetto, risalirono il terrapieno. Il Tempestini si appostò dietro il tronco di un grosso albero; il brigadiere, che nel frattempo si era acceso una sigaretta, prosegui per una trentina di metri prima di appiattarsi anche lui, in maniera da non essere notato, dietro il muro in pietra grezza della fontana. Intanto il soggetto ambiguo, con tutta probabilità lo stesso notato pochi minuti prima dalla macchina, era stato raggiunto da due giovani con cui stava confabulando.

Adesso, la poca luce che aveva permesso ai due uomini dell’Arma di raggiungere i giardini risalendo dal lago, era schermata quasi totalmente dalle folte chiome dei lecci e dalle siepi.

Dei tre uomini, i due carabinieri potevano vederne la sagoma e intuirne le braccia innocue, stese molli lungo il corpo. Il Brigadiere distava da loro poco più di una dozzina di metri. Ad un tratto notò che uno dei giovani si toglieva dal polso l’orologio e lo porgeva all’uomo che aveva davanti, dall’evidente origine nordafricana. Quest’ultimo, afferrato l’orologio e fatto sparire in una tasca dei pantaloni, estrasse qualcosa dalla bocca e la porse, a sua volta, al tizio che si era tolto l’orologio.

Daniele, dalla sua postazione, non poteva vedere le mosse del suo superiore. Ne conosceva però perfettamente la posizione, dal momento che non aveva perso di vista per un solo istante la luce tenue della brace della sigaretta dalla quale Sergio, prima di gettarla a terra, tirò una gran boccata di fumo nella speranza che il commilitone capisse il messaggio.

Il giovane carabiniere, quando vide quel piccolo braciere incendiarsi di vita nuova, capì che il brigadiere stava per disfarsi della sigaretta. E intuì al volo anche il messaggio.

Sergio e Daniele scattarono contemporaneamente e in un batter d’occhio furono a ridosso del terzetto, bloccando i tre uomini che si stavano già dividendo e allontanando in direzioni diverse. Daniele riuscì ad agguantare per le braccia i due giovani italiani che non opposero resistenza; il brigadiere afferrò la maglietta del nordafricano, lo stesso che aveva notato fin dall’inizio, ora ne era sicuro, e lo ammanettò dopo una breve colluttazione. Il ragazzo che aveva ceduto l’orologio, credendosi inosservato, cercò di disfarsi della dose di eroina lasciando cadere il pacchetto appena ricevuto dallo spacciatore ma, la mossa, non sfuggì al carabiniere che lo recuperò. I due militari, raggiunti nel frattempo dagli uomini di una Gazzella, perquisirono i tre fermati nel timore che, oltre ad altre prove di reato, occultassero anche delle armi. Dalle tasche di Fouad Dibrani, tunisino, insieme all’orologio d’oro appena consegnatogli dal ragazzo italiano, saltarono fuori anche cinquecentomila lire in contanti.

La serata proseguì con l’accompagnamento in carcere del pusher, dove fu affidato alle “cure” del difensore d’ufficio. Dopo aver raccolto la deposizione dei due giovani italiani, nella quale quest’ultimi chiesero che venisse verbalizzato il valore dell’orologio ammontante a quasi un milione di lire, i due carabinieri si recarono alla squallida pensione dov’era domiciliato il tunisino per la perquisizione della sua stanza. Finì così la serata e con quella la storia di un arresto come tanti altri.

Nulla di eroico, nulla di stravolgente: un arresto come tanti altri. Ma non per Sergio e Daniele.

Tanto per cominciare, i due giovani fermati, erano arrivati da Bologna in una Parvenze quasi “sospesa” per ferie ad acquistare una quantità importante di eroina. Segno evidente che la “piazza” dell’Oltrelago non era il terminale di un commercio clandestino di droghe, anche pesanti, rivolto all’uso locale; bensì un anello importante nella catena del traffico degli stupefacenti con interessi anche oltre i confini regionali.

E poi c’era stata quell’armonia perfetta nel momento dell’azione; quel grido “FERMI, CARABINIERI!” urlato in coro a dispetto dello scetticismo del brigadiere. Quella sera, da una sigaretta e da due grida in coro, nacque un sodalizio professionale che sarebbe andato oltre l’aumento di grado del Caglioma, avvenuto di lì a pochi giorni, e il successivo trasferimento a Pasticci con il compito di comandarne la locale Stazione dei Carabinieri, avvenuto l’anno successivo. Anche il Tempestini, pur rimanendo al Nucleo Operativo Oltrelago di Parvenze, sarebbe cresciuto di grado: prima appuntato e poi brigadiere. La fiducia e la stima reciproca era cresciuta invece più dei gradi cuciti sulle mostrine della divisa e, i due militari, continuano tutt’oggi a darsi sponda l’un l’altro anche quando le loro strade professionali, a rigore di competenze e di procedure, non si incontrerebbero. Ed ecco spiegato perché quel sabato pomeriggio di un paio di anni più tardi, in seguito al rinvenimento del cadavere, il maresciallo Caglioma aveva chiesto al Tempestini di essere presente alla deposizione dei fidanzati che lo avevano trovato: le indagini le avrebbero portate avanti insieme.

*****

In realtà da quella deposizione non emerse niente di nuovo e niente di interessante per l’inchiesta. Tutte le discordanze nei ricordi dei due fidanzati, e non furono poche, erano irrilevanti al fine della ricostruzione dei fatti ma sufficienti per far trarre al Caglioma e al Tempestini la loro conclusione: quei due erano pronti per sposarsi… e ne sarebbe venuta fuori certamente una coppia eccellente e scoppiettante.

Più interessanti erano stati invece i particolari emersi dai primi riscontri sul cadavere, eseguiti direttamente sul luogo del ritrovamento dopo che il medico legale, con l’aiuto di due carabinieri e autorizzato dal magistrato di turno che li aveva nel frattempo raggiunti, aveva rivoltato la salma su se stessa facendola ruotare su un fianco. I due soli fori d’uscita presenti sul petto lasciavano intendere che, all’interno del corpo, c’erano rimasti intrappolati due proiettili, belli e pronti per essere “interrogati” durante l’esame balistico. Il quinto proiettile, quello entrato da sotto l’orecchio, era uscito dalla base del naso dopo aver spaccato in due l’arcata dentale superiore e aver reso irriconoscibile il volto dell’uomo… o quello che ne rimaneva. Ora però, l’anatomopatologo, per aggiungere altro, aveva bisogno di rovistarci dentro.

«Maresciallo, per quel che mi riguarda la salma può essere rimossa: per dirle altro ho bisogno di visitarla comodamente stesa sul mio tavolo da lavoro».

«Grazie dottore, gliela farò avere quanto prima. Cortesemente, mi presterebbe un paio dei suoi guanti?»

Infilati i guanti, il Caglioma frugò nelle tasche del malcapitato tirando fuori, fra le altre cose, una mazzetta di banconote di vario taglio per un ammontare complessivo di oltre un milione e mezzo di lire, e le chiavi di un’Alfa Romeo con tanto di portachiavi in cuoio, omaggio della concessionaria.

 




 


Commenti

Post popolari in questo blog

LO SCRIVIAMO INSIEME?

"FA' PARLARE DI TE" - Concorso letterario senza classifica -

TENTATA RAMPA A PONTE A SIGNA!!!