SECONDO CAPITOLO - L'Iris che fa i miracoli

 
 

“…Quelle ragnatele che ti si attaccano al naso e alla fronte quando scendi in una cantina…”

Illustrazioni di Giacomo Carletti

 

Dopo il ritrovamento del cadavere, Daniele Tempestini era andato a dormire qualche ora; il Maresciallo Caglioma aveva dovuto adempiere a mille attività burocratiche e al compito ingrato di informare la famiglia dello sventurato e, già che c’era, ne aveva approfittato per buttare un occhio attento nella sua stanza e perquisire l’auto che si trovava parcheggiata sotto casa. Sta di fatto che, quando si ritrovarono nella caserma di Pasticci per la deposizione dei fidanzati, i due amici e colleghi dovevano ancora pranzare.

La trattoria Da i’ Daddi, affacciata sulla piazza più grande di Pasticci, si trova oggi stretta fra il liceo Gabrio Celsi e il megapalazzo di sette piani della Prony, il maggior distributore al dettaglio di elettrodomestici e inutili aggeggi elettronici della regione. Fino alla metà degli anni Sessanta, e prima di un profondo adeguamento nella distribuzione degli spazi interni che non ha aggredito il fascino della sua architettura esterna, l’attuale liceo ospitava le classi elementari e medie ed era l’unica scuola di tutto il comprensorio comunale.

L’enorme centro commerciale invece è stato edificato quando il terzo millennio era già scoccato, soppiantando il romantico e pittoresco mercato coperto, storico punto d’incontro e di rilancio di tutte le ciane del paese. La sua inaugurazione ha stravolto anche la funzionalità della piazza stessa, passata dalla pulsante vivacità, dominata e alimentata dall’autostazione del servizio pubblico, al dormiente parcheggio a pagamento per i clienti del megastore. Le spese dei cambiamenti è toccato farle anche alla premiata trattoria o, almeno, all’atmosfera che si viveva stando seduti nella veranda esterna.

Al vecchio Daddi piace ricordare con nostalgia il gioioso via vai, vivo e vitale, colorato e, a volte, fin troppo colorito di un tempo e su cui il progresso ha sovrascritto in bianco e nero. Nulla invece è cambiato nella qualità del cibo e del bere e nel rispetto profondo delle tradizionali ricette, quelle tipiche parventane del cucinare casalingo, che pretendono prodotti buoni e genuini. Non è un caso infatti, che il Solinas sia il principale fornitore di carne e di latticini della trattoria Da i’ Daddi.

In condizioni normali dalla Stazione dei Carabinieri comandata dal maresciallo Caglioma alla locanda del Daddi ci vogliono, camminando di passo spedito, dieci minuti scarsi. La fame da lupi, in quel pomeriggio inoltrato, accelerò il passo dei due carabinieri che la raggiunsero stracciando il loro precedente record di cinque primi e ventisette secondi: unico sconfitto fu il fiato del sottufficiale, messo a dura prova dai cinquecentosei millimetri di femore dell’appuntato.

Gli ultimi avventori, anche quelli che essendo sabato si erano potuti attardare più del solito, se ne erano già andati. Sergio e Daniele scelsero di sedersi in veranda, nell’angolo a sinistra dell’entrata, in maniera da non vedere l’infernale parallelepipedo rivestito di cristalli color bronzo e sovrastato dall’enorme insegna girevole con la scritta “Prony!”. Stavano mangiando lentamente il loro secondo piatto a testa di penne alla carrettiera, un’eccezione per loro quella di mangiare lentamente ma, in quel momento, erano presi più dal chiacchierare che dal cibo… o meglio, Sergio Caglioma era preso dal raccontare la preoccupante situazione in cui versava l’Ordine Pubblico di Pasticci e che aveva ricostruito, nei sette mesi trascorsi da quando aveva preso il comando della locale Stazione, fin nei minimi dettagli. Daniele Tempestini, dal canto suo, era troppo occupato ad ascoltare.

Pasticci, in provincia di Parvenze, è un grande paesone nato e cresciuto frettolosamente come satellite dormitorio del capoluogo di provincia e diventato, altrettanto frettolosamente, un centro industriale e commerciale a cui adesso il malaffare stava infilando il pungiglione nei tessuti economici sani per succhiarne le energie, rendendo la vita della collettività al limite del sostenibile. Ferma restando la capillare ramificazione su tutto il territorio comunale e anche oltre, il malaffare aveva il suo epicentro nel quartiere di Pasticci conosciuto come Isolato Quarto, dove aveva impiantato sia il suo quartier generale sia il vivaio per le nuove leve della malerba.

Isolato Quarto: una sorta di paese a latere del paese; un non-luogo; una concentrazione demografica esasperata fino al limite dell’esplosione; un caos urbano in cui l’unica nota stonata è la perfetta geometricità delle strade, tutte minuziosamente parallele e perpendicolari fra di loro, con l’unica grande piazza rigorosamente quadrata posta nel centro esatto del dedalo. Tutto il resto, dagli edifici ai relitti di biciclette legate ai lampioni o alle cancellate dei condomini, pareva che Dio, preda di un raptus di follia, ce lo avesse scagliato giù con frenetica e indicibile veemenza... come “gettò i suoi disegni con rabbia giù da Ponte Vecchio” la ragazza irlandese con la sua laurea in filosofia, protagonista della Canzone triste di Ivan Graziani. Invece no!, Dio non c’entra nulla: Isolato Quarto era e rimane il frutto di una malvagia speculazione edilizia, perpetrata a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta; uno sbaglio della storia; una bestemmia urbanistica tanto che, ufficialmente, non si era meritato nemmeno un nome. Isolato Quarto: così avevano iniziato a chiamarlo spontaneamente e, spesso, con disprezzo gli stessi abitanti. Isolato, in quanto mondo concettualmente a sé stante ma isolato anche fisicamente, separato com’è da Pasticci e dal quartiere Oltrelago di Parvenze da campi trascurati e semideserti, per lo più ricoperti dai cumuli degli scarti dei cantieri, dalle baracche in lamiera dei rottamai e dagli ammassi rugginosi degli sfasciacarrozze che svolgono l’attività riparati da tettoie di Eternit. Un mondo di abusivismo che tutti vedono, tranne chi dovrebbe vedere. E Quarto, perché distante quattro miglia dalla cinta muraria del capoluogo di provincia. Isolato Quarto, appunto.

«Dal punto di vista della delinquenza organizzata», stava dicendo il maresciallo, «l’impianto è dominato da alcune cosche a cui fanno capo, a loro volta, piccoli gruppi di delinquenti e delinquentelli comuni. In sostanza, capitani e gregari, non perdono occasione per infilare la cannuccia in qualsiasi attività di un economia apparentemente soddisfacente, in barba alle leggi in vigore che, a volte, ho la sensazione che qua non siano nemmeno mai arrivate».

La cosa più preoccupante però, per il Caglioma, non stava tanto nello stato di fatto che aveva fotografato in quella manciata di mesi da comandante di stazione, bensì nella palese tendenza all’aumentare delle attività delittuose e dall’interesse, sempre più attento, mostrato dalle grandi organizzazioni criminali notoriamente localizzate in altre aree geografiche della Penisola.

«Hai presente Daniele, quelle ragnatele che ti si attaccano al naso e alla fronte quando scendi in una cantina in cui nessuno è entrato da tanto tempo?» e nel dirlo accompagnò le parole con un gesto del braccio come per pulirsi la faccia dai filamenti appiccicosi «ecco, questa è la sensazione che io provo quando tocco certi argomenti, e non solo con i commercianti e piccoli imprenditori, ma anche con i politici locali… E sono proprio loro ad inquietarmi più di ogni altra cosa». Insomma, la sensazione colta dal maresciallo Caglioma, insieme a quella della ragnatela invisibile ma appiccicosa ed inevitabile, è quella tipica di omertà che caratterizza certi clan che riescono a vivere a discapito e malgrado le leggi e la Giustizia, imprimendo timore alla brava gente e diffondendo stati di paure e di ansietà.

«Ho proposto al capitano che comanda la Compagnia di organizzare un gruppo di lavoro, possibilmente coordinato dallo stesso tenente a capo del Nucleo Operativo Oltrelago, al fine di indagare e intervenire con una forza che la struttura della Stazione di provincia non mi consente» disse il maresciallo prima di infilare in bocca, piegando la testa di lato, una forchetta sovraccaricata di penne grondanti sugo di pomodoro e peperoncino piccante. «E questo», proseguì con un sorriso di piacere appena mandato giù il boccone, «mi consentirebbe di ricorrere alla tua collaborazione in via ufficiale».

Alle diciassette e trenta o giù di lì, l’oste si presentò al tavolo con un tagliere di formaggi, un filoncino di pane con relativo coltello dalla lama seghettata e un fiasco impagliato, riempito di vino della casa fin poco sotto il bordo superiore della veste. Il tutto serviva da accompagnamento alla prosecuzione di una narrazione che si stava addentrando nei dettagli. Il lavoro investigativo, l’attenta e discreta osservazione dei movimenti sul territorio e alcune “fonti di fiducia” avevano consentito al Caglioma di dare dei volti alla cosca, ma gli elementi non erano ancora sufficienti per consentirgli di mettere le mani addosso e, soprattutto, le manette ai polsi dei malviventi.

«A capo dell’organizzazione criminale c’è un disabile, tale Aniello Cinà, costretto a muoversi con la sedia a rotelle», riferì Sergio, «e viene coadiuvato dal cugino Onofrio Cinà e dal più anziano tuttofare Orlando Cuccioni». Proseguì: «La banda si avvale poi di una nutrita schiera di manovali, per lo più tossicodipendenti. La droga è come un motore da cui escono due alberi di trasmissione: uno aziona il volano che moltiplica i capitali; l’altro serve a trattenere nell’orbita dei capo clan la manodopera spicciola».

*****

In mesi di indagini i carabinieri di Pasticci avevano messo in ordine le tre fasi principali su cui si basava l’azione strutturata della malavita locale: in primo luogo il reperimento dei capitali attraverso furti, rapine, usura ed estorsioni; successivamente il loro investimento nell’acquisto in partite di droga o in altri traffici illeciti e, infine, il riciclaggio del denaro sporco in attività parallele, preferibilmente nel settore immobiliare ma non solo.

«La banda del Cinà», precisò il maresciallo, «solitamente si occupa direttamente delle prime due fasi ma, seppur su piccola scala, non disdegna qualche puntata anche nella terza fase, per lo più controllando l’attività di caporalato con cui viene fornita la forza lavoro nei cantieri di tutta la zona».

Aniello, invalido civile non deambulante, viveva a Pasticci da una decina di anni e per l’esattezza nell’Isolato Quarto, dove era arrivato portandosi dietro una fedina penale da sembrare la raccolta “Panini” dei reati: da quelli contro il patrimonio alla detenzione illegale di armi non denunciate e con la matricola abrasa; dallo spaccio di stupefacenti allo sfruttamento della prostituzione; dal riciclaggio all’estorsione passando per l’usura. Nell’ambiente era considerato la mente indiscussa e senza scrupoli della filiera criminale di Pasticci. A renderlo socialmente ancora più pericoloso, oltre alla miscela fra la sua arguta intelligenza e il suo sconfinato cinismo, c’erano la cieca obbedienza del cugino Onofrio e del Cuccioni.

«Loro, caro Daniele, fanno la vita spensierata. Passano le giornate a gozzovigliare dentro al bar Strong».

Lo Strong è uno dei quattro bar di Isolato Quarto, tutti identici fra loro e immancabilmente caratterizzati dai grandi sporti di alluminio grigio con i vetri sporchi e dagli arredi scarsi e dozzinali. In ognuno i banconi sono rivestiti da un piano in acciaio inox con i bordi ammaccati e tutti i quattro gestori tengono i piattini e le tazzine su un canovaccio lercio, steso sopra la macchina dell’espresso. Non fanno distinguo nemmeno gli scaffali alle spalle dei baristi, con i ripiani in formica e le superfici verticali ricoperte da specchi nell’inutile tentativo di far sembrare tante le poche bottiglie, prevalentemente Sambuca Molinari, Rosso Antico e Stock 84. Unica differenza fra i quattro locali, almeno all’epoca, era la frequentazione: la teppa tendeva a ritrovarsi prevalentemente al bar Strong da dove il Cinà, evidentemente, svolgeva la sua funzione di supervisore. Tutte le attività di “regia”, invece, avvenivano in luoghi che garantivano una maggiore discrezione.

Le difficoltà deambulatorie non erano l’unico problema fisico del capo cosca, afflitto anche da incontinenza nervosa, tanto che, in caso di ansietà e paura, finiva sempre per defecarsi addosso.

«C’è chi ipotizza che non si tratti di una malattia vera e propria, ma di una tecnica che il Cinà avrebbe messo a punto per sfuggire agli arresti» riferì senza crederci troppo il Caglioma «sta di fatto che, con questo sistema, in un paio di occasioni, è riuscito a disfarsi della droga che sicuramente aveva addosso ed eludere i controlli da parte degli organi di Polizia».

Il Caglioma aveva chiesto ragguagli su Aniello Cinà anche ai colleghi delle città in cui quest’ultimo aveva abitato prima di trasferirsi a Pasticci, ricevendo informazioni tutt’altro che rassicuranti. Aveva avuto invece conferma di trovarsi davanti ad una persona irascibile e violenta, arrogante e senza remore nello sfruttare la sua menomazione fisica a favore dei suoi traffici e delle sue losche attività. Indubbiamente si trattava di un delinquente a pieno titolo e, altrettanto indubbio, era il fatto che vivesse nettamente al di sopra delle possibilità offerte dalla pensione di invalidità. Dalle voci di popolo, alle quali il Caglioma aveva imparato a dare grande ascolto e il giusto peso, aveva appreso che nessuno avrebbe mai avuto l’ardire di denunciare le azioni di quell’uomo, cresciuto in una famiglia in cui il disprezzo delle regole morali e la violazione delle leggi scritte era il pane quotidiano.

«E l’altro, il parente?» chiese Daniele, mentre dal fiasco impagliato versava per entrambi tre dita di vino rosso.

«Onofrio», spiegò il maresciallo, «non fosse per le gambe che funzionano e l’intelligenza più grossolana, sarebbe la copia esatta del cugino a cui fa da spalla, da autista e da ombra». Il terzo invece, il Cuccioni, con l’intelligenza aveva davvero poco a che spartire. Era il più anziano del gruppo e aveva passato quasi tutti i suoi giorni in palestra, in carcere o nelle palestre dei carceri che lo avevano ospitato. Fin da ragazzino si era dedicato alla boxe ma, nonostante l’appropriata potenza fisica, la sua indole eccessivamente violenta anche per quello sport lo aveva sempre tagliato fuori da qualsiasi velleità agonistica. Per Aniello Cinà, poco propenso a discutere ricorrendo al linguaggio parlato, Orlando era invece il collaboratore ideale tutte le volte che una questione aveva bisogno di essere messa in chiaro senza equivoci: «E le vox populi mi garantiscono» concluse Sergio Caglioma «che quando qualcosa a qualcuno gliel’ha spiegata Orlando Cuccioni, quel qualcuno è sempre tornato a casa con le idee chiare… magari non camminando sulle sue gambe, ma di sicuro con in testa concetti limpidi».


Era finito il vino e anche il pane e il formaggio. Ed era anche ora che il Daddi cominciasse a preparare i tavoli per la cena perché, a forza di raccontare, era finito anche il sabato pomeriggio. L’appuntato Tempestini aveva ascoltato con attenzione l’amico sottufficiale raccontargli di quel sottobosco di criminalità impetuosa e di quel vivere al di fuori dei canoni civili, perché è in quella palude di mangrovie che avrebbero dovuto infilare mani e piedi se il capitano Francesco Macrì, comandante della Compagnia, avesse accettato la proposta del maresciallo Caglioma.

Ma qualunque fosse stata la decisione del capitano, rimaneva il fatto che c’era da indagare su quel cadavere ritrovato la mattina stessa, anche se sembrava fosse già passata una settimana.

«A proposito: il corpo apparteneva a Martino Loiodice, ortolano ambulante ventisettenne, residente al numero 9, scala E, di via Venezia nel quartiere Isolato Quarto...». Prima di concludere la frase, il maresciallo, fece una breve pausa «…e pensa che Lando Faria, il capo redattore de La Finzione, mi ha detto proprio stamattina che Pasticci non è luogo di delinquenza!»

Il Caglioma e il Tempestini erano concordi nel credere che un delitto di quella portata, e con almeno un punto di tangenza con il territorio controllato dal Cinà, un qualche grado di parentela con la cosca dell’invalido che si caga in grembo dal nervoso ce lo doveva avere. E dunque, qualunque fosse il movente dell’omicidio, la palude di mangrovie li aspettava. E da lì sarebbero partiti. Ma non subito: anche per lo loro era sabato sera.

 

 

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