TERZO CAPITOLO - L'Iris che fa i miracoli

 

“…A Pasticci non si assesta picconata che non voglia il Soprassata…”


L’investitura del maresciallo Caglioma a comandante della Stazione dei Carabinieri, avvenuta il quindici di novembre del millenovecentottantanove, fu solo l’ultima in ordine cronologico fra le folate di vento rinnovatore che, soffiando fra le cariche istituzionali di Pasticci, portarono avvicendamenti che avrebbero pesato, e non poco, sugli indirizzi politici del paese e sulla vita degli abitanti.

Alcuni espletarono domenica diciotto giugno, altri lunedì diciannove ma rigorosamente entro le ore quattordici, sta di fatto che il novantaduevirgolatrentasei per cento dei Pasticcesi aventi diritto al voto, infilando nell’urna ognuno la propria scheda, si espressero per il rinnovo del Consiglio Comunale. Che ad avere la meglio sarebbero stati, per l’ennesima volta, agli azzurri di Arroganza Nostrale era ovvio e chiaro a tutti. Dunque, i punti di rottura col passato dai quali scaturirono i mutamenti, se così si possono definire, non ebbero certo origine da un rimpiazzo del partito dal dominio incontrastato, ma piuttosto dalla nomina di nuovi candidati e da un’alleanza di governo che non era mai stata sperimentata prima… almeno per l’Amministrazione di quel Comune.

La freschezza dei candidati fu dettata, giocoforza, dall’età dei consiglieri uscenti, molti dei quali già in precedenza erano usciti dalla militanza nel disciolto partito che aveva portato il Popolo nell’incubo della Seconda Guerra Mondiale. Il loro rinnegare l’appartenenza a quella devastante forza politica, abbinato all’apparente saltare sul carro dei liberatori, gli aveva forse dato una pennellata superficiale di verginità ma non certo riavviato il calcolo degli anni che, ormai, si attestavano intorno (e oltre) quota settanta.

Intanto, con il passare del tempo, la pennellata di verginità stava sbiadendo mettendo a nudo la vera indole di certi personaggi e, fra gli elettori, qualche occhio cominciava ad aprirsi. Del resto bastava osservare come veniva amministrata la Cosa Pubblica per rendersene conto… e se ne resero conto anche le nuove leve di Arroganza Nostrale pronte per la discesa in campo consapevoli che, pur avendo la vittoria in tasca, le percentuali plebiscitarie con cui il partito aveva governato fino ad allora non erano più così scontate e, con quelle, la possibilità di imperare in maniera indiscussa con un’opposizione relegata in quote irrisorie ed irrilevanti. Dalla presa d’atto nacque la “genialata” di costituire un’alleanza per il governo locale di Pasticci.

L’idea di mettere in campo una lista civica “d’appoggio” venne a Nero Ceccanti, classe millenovecentocinquantuno, farmacista del paese e “basista” del partito poiché, il retro della sua farmacia, era diventato non solo la sede logistica della campagna elettorale, ma anche la filiale distaccata e operativa del partito stesso. La strategia si rivelò decisamente vincente, tant’è che la somma dei consensi raggiunti complessivamente da Arroganza Nostrale (AN) e da Sempre e Solo Pasticci (S.e.S.P.), la lista civica farlocca e completamente finanziata dal partito del Ceccanti, superò addirittura il numero di voti che AN aveva ottenuto alla consultazione di cinque anni prima.

Il successo elettorale ebbe ovviamente la sua conseguenza, anzi, per l’esattezza, nell’immediato ne ebbe due. La prima fu che Vinicio Terraterra, il settantenne pensionato della Sip capolista di Sempre e Solo Pasticci, venne ricompensato con la carica virtuale di sindaco. Insieme a lui, la lista S.e.S.P., piazzò in Consiglio Comunale sei consiglieri che, per i cinque anni successivi, non avrebbero mai preso la parola in Assemblea, salvo poi votare macchinalmente sempre in linea con quanto stabilito nel retrobottega della farmacia. Il secondo effetto riguardò direttamente Nero Ceccanti: appurato che il risultato elettorale fu conseguente all’idea tutta sua di costruire la parallela lista “acchiappa-voti”, oltre ad essere nominato vicesindaco ricevette il riconoscimento, indistintamente da tutti gli adepti del partito, di “capitano in pectore” della nutrita schiera di ben diciannove consiglieri collocati direttamente sotto il simbolo di Arroganza Nostrale. I cinque seggi rimasti disponibili in Consiglio furono riempiti dall’opposizione di sinistra e di destra, occupando rispettivamente tre e due scranni.

Amintore, padre di Nero Ceccanti e uomo che se aveva dei freni non erano certo da ricercare nel classificatore degli scrupoli, si era dato un gran daffare durante gli anni cupi della guerra e, appunto senza scrupoli, in quel periodo aveva commerciato e smerciato qualsiasi cosa che avesse potuto trovare collocazione sul mercato nero. I ricarichi da capogiro che applicava erano rigorosamente proporzionati alla grandezza del bisogno di chi gli capitava sotto tiro o, più precisamente, fra le grinfie. Tanto fece e tanto intrallazzò che alla fine del conflitto, il vecchio Ceccanti, si ritrovò fra le mani una montagna di soldi da far frullare e da far lievitare.

Placata la furiosa pazzia bellica, sul palcoscenico del teatrino del tempo che scivola via, c’era un gran fervore: gli sfondi tragici del conflitto mondiale vennero ripiegati e riposti dietro le quinte con la massima rapidità consentita dalle circostanze; un intero Popolo di gente laboriosa e forte stava ornando di fiori colorati il boccascena e sul palco, illuminato dai raggi di un sole che sembrava miracolosamente scampato a una glaciazione apocalittica, la vita rifioriva al suono delle canzonette. In quell’atmosfera di speranza ritrovata, l’arte sana del sapersi divertire senza effetti speciali danzava le coreografie della gioia e della felicità. Ogni occasione, in ogni piazza, dal borgo più piccolo alla più grande delle città, era quella buona per far esplodere una festa o una fiera. Le vesti delle ragazze accompagnavano le giravolte dei balli con gli ultimi rumori fruscianti, prima di capitolare a favore di silenziose minigonne e di gambe nude e tornite, da guardare restando a bocca aperta. Intanto, i giovanotti, offrivano sempre meno spesso “passaggi” sui manubri delle biciclette: la diffusione della Vespa, della Lambretta e, per i più fortunati, delle prime 600, aveva scagliato con forza il velocipede giù dal podio dei mezzi di locomozione... Panta rei, sentenziava il buon Eraclito di Efeso…

Tutto scorre… l’artiglieria pesante era stata smontata dai vecchi veicoli bellici che adesso facevano irruzione nei paesi carichi di frastuono, di giostre, di circhi, di banchi da imbandire di dolciumi e di macchine dello zucchero filato.

Il vecchio Ceccanti, tendenzialmente, stava alla larga da tutto quello che consumasse i soldi invece di accrescerli, di conseguenza le fiere paesane non erano il suo terreno più congeniale. Ma ogni uomo ha il suo punto debole e quello di Amintore Ceccanti stava nel farsi catturare dal fascino delle macchine per lo zucchero filato, fascino dal quale non riusciva a sottrarsi: ci sarebbe stato ore a guardarle girare; a guardare quei pochi granelli di zucchero che, giro dopo giro, aumentavano di volume… basta scaldarli e farli girare… e pensava ai suoi soldi e a una macchina che li facesse girare e gonfiare; girare e gonfiare; girare e gonfiare.

Se una macchina come quella sognata dal Ceccanti sia mai stata inventata non è noto; quel che è certo è che nel periodo che Carlo Castellaneta a pieno titolo chiamò Anni Beati, il capitale di Nonno Ceccanti subì lo stesso effetto dei granelli che diventano zucchero filato. Quando, come regalo per il trentesimo compleanno e per la laurea finalmente conseguita, comprò al figlio Nero la farmacia nel centro di Pasticci, compresa la proprietà immobiliare dell’intera palazzina, per Amintore prelevare tutti quei milioni dai suoi conti fu come prendere un acino da una bigoncia piena d’uva.

*****

Che il lupo cambi il pelo e si tenga il vizio è risaputo. E anche Nero Ceccanti, nonostante la nomina a vicesindaco, mantenne l’abitudine di mettere i piedi fuori dalla farmacia solo per questioni di massima importanza e non differibili in altri orari. A mantenerlo segregato dentro quelle quattro mura era, e lo è tutt’oggi, la cronica sfiducia nei confronti dei suoi collaboratori tenuti sott’occhio costantemente, sia mai che una commessa si infili nel reggiseno una confezione di palline Zigulì o, sollecitata da ben altri appetiti, faccia sparire in un risvolto del camice una scatola di Settebello. Non fa eccezione nemmeno la moglie che, letteralmente detenuta sullo sgabello della cassa da mane a sera, se lo sente ansimare sulla nuca mentre conta le monetine di un resto. Ma tolta la costante attività di supervisione su ogni più piccolo movimento, la sua attività di farmacista finisce lì, soprattutto dopo aver avocato a sé, oltre alla carica di facente funzione di sindaco (più che di vice), anche le deleghe all’Urbanistica e all’Edilizia Privata.

Ma a differenza del lupo il nuovo vicesindaco ha una figura tutt’altro che leggiadra e leggera; nel contempo lesta e solenne. E’ così, che insieme al vizio, gli è rimasto anche il nomignolo di Soprassata, appellativo con cui molti cittadini conoscono e nominano Nero Ceccanti e, naturalmente, lo fanno a sua insaputa. Il soprannome deriva dalla forma e dalla circonferenza della sua testa e meno male che, chi glielo affibbiò fin da quando era un ragazzino con le candele di moccico al naso, non si fece influenzare dalla faccia, caratterizzata da una boccuccia piccola e rotonda e senza labbra, compressa fra due enormi guancione rubizze e glabre. In comune con il lupo il Soprassata ha invece la disinvoltura ma, mentre il primo ce l’ha nella grazia dei movimenti fisici, il secondo ce l’ha tutta nella mosse politiche.

Era stata proprio la consapevolezza della sua disinvoltura “amministrativa”, superiore anche alla proverbiale sfacciataggine politica di molti noti statisti nazionali, a portarlo alla decisione di incamerare in sé le due deleghe che gli avrebbero permesso di avere le mani sulla gestione e, soprattutto, sullo sfruttamento dell’intero territorio di Pasticci e, di conseguenza, anche il controllo della circolazione di un’enorme quantità di denari.

Adesso c’era solo da darsi una mossa e, Nero Ceccanti, se la diede senza porre tempo in mezzo, tanto che, prima ancora che gli anni ‘novanta fossero incoccati nell’arco delle stagioni, già girava il proverbio secondo il quale “A Pasticci non si assesta picconata che non voglia il Soprassata”.

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