SESTO CAPITOLO - L'Iris che fa i miracoli

“…«I bambini?» chiese di nuovo il Caglioma…”

 


Illustrazioni di Giacomo Carletti

 

Nell’aria echeggiavano ancora i botti con cui gli abitanti della Valle e i villeggianti avevano salutato l’arrivo del nuovo anno e l’inizio di un nuovo decennio. Pareva che il Colle Santa Lucia e il Monte Pelmo si rilanciassero quei suoni lenti come fosse la pallina di una interminabile partita di ping-pong e che nessuno dei due volesse essere il primo a farli cadere a terra. A terra invece, con sorpresa e a dispetto delle previsioni, era caduta tanta di quella neve da rendere impraticabili le strade. C’erano gli spalaneve pronti ad intervenire, è vero, ma gli autisti si erano fidati del servizio meteorologico e avevano festeggiato con il gomito alzato. No!: non era decisamente il caso che, in piena notte, si mettessero alla guida dei camion e dei trattori.

Tanto meno era il caso di affrontare un viaggio, in macchina o in ambulanza, da Selva di Cadore fino all’ospedale di Agordo con una donna a cui si erano già rotte le acque.

Prima dell’alba Fausto Pierobon vide la luce; la sua prima luce: quella della fiamma del caminetto, nella grande cucina comunicante con la bottega di alimentari di famiglia. Per i successivi diciotto anni tutto il suo mondo iniziava e finiva nella Val Fiorentina, confinato dalle vette delle montagne circostanti. Tutto quello che sapeva, Fausto lo aveva imparato lì, fra quei monti. Compreso guidare l’automobile.

Potrebbe essere stato il nascere prima dell’alba a marcare le sue abitudini future o forse l’assorbire gli stili di vita del nonno, al quale era legato in maniera quasi morbosa, sta di fatto che Fausto tutti i giorni si alzava (e si alza) prima del sorgere del sole. A quindici anni aveva imparato a guidare l’automobile sulla strada innevata o ghiacciata dagli inverni interminabili di quei luoghi, andando a caricare il pane al forno di Santa Fosca dove la famiglia Pierobon si riforniva per le necessità della bottega. Le prime volte lo accompagnava il nonno, poi le condizioni di salute dell’anziano bottegaio peggiorarono e Fausto continuò ad andarci da solo. Riempiva il bagagliaio dell’Alfetta di filoni e filoncini, rosette e fruste, schiacciate e pizzette e tornava alla casa-bottega giusto in tempo per rinchiudersi fra le quattro mura della scuola. La sua passione ed il suo sogno però erano entrambi fuori, all’aperto, e incompatibili fra loro: rispettivamente la montagna e guidare un’Alfa Romeo con la trazione posteriore e la scritta “Carabinieri” sulle fiancate. Altro non voleva e altro non chiedeva.

Nonno Pierobon se ne andò in pochi mesi con lo stesso silenzio e con la stessa dignità con cui aveva vissuto in valle per settant’anni; la stessa dignità che aveva trasferito in eredità al nipote il quale di avere in eredità anche una bottega di alimentari, non voleva saperne.

La voglia di fare qualcosa per correggere una società sempre più sbagliata, la necessità di mettere una distanza fra sé e i ricordi del nonno, il desiderio di assaggiare il mondo oltre le vette delle montagne con la sua bocca e non dalla bocca di chi tornava a raccontarlo, presero la mano di Fausto e, nella scelta fra la passione per la montagna e il sogno di diventare carabiniere, lo guidarono verso la realizzazione del secondo. Da suo nonno aveva imparato ad essere un Uomo; la Strada Provinciale 251, insieme all’Alfetta, avevano fatto di lui un autista provetto e ora l’Arma lo stava facendo diventare un professionista serio e affidabile.

*****

Il maresciallo Sergio Caglioma sapeva che tutto si era risolto per il meglio, ma era ansioso di sapere come si erano svolti i fatti. Non che si sentisse in qualche modo responsabile, aveva solo fatto il suo dovere, ma era pur sempre stato lui a chiedere il supporto dei colleghi del Nucleo Operativo Oltrelago di Parvenze, coinvolgendoli in un inseguimento che poteva rivelarsi disastroso. Aveva avuto la pazienza di aspettare fino a metà della mattina, poi aveva chiamato la Tenenza e chiesto di essere messo in contatto radio con l’appuntato Tempestini. Daniele non si fece ripetere l’invito una seconda volta: un caffè con l’amico maresciallo è uno di quei piaceri a cui non sa rifiutare.

Tortorella annunciò al Comandante la visita dell’appuntato, una formalità inevitabile quanto scontata era la risposta; Daniele proseguì con passi calmi e lunghi fino all’ufficio del Caglioma, già saturo dell’aroma uscito dalla moka che borbottava sul fornelletto elettrico posato sotto la finestra della stanza. Il Pierobon invece si fermò lì, nella stanzetta del piantone, e avrebbero parlato di macchine e di motori... e anche lui avrebbe raccontato l’avventura della sera prima.

Quella macchina, una Peugeot 205 GTI rossa, con un uomo una donna e due bambini a bordo, i carabinieri di Pasticci l’avevano notata in giro per Isolato Quarto altre volte e, tutte le volte, si era fermata davanti al bar Strong. Il Caglioma voleva capirci qualcosa di più ma il numero di targa aveva rivelato solo che l’intestatario della macchina era un ottantaquattrenne invalido civile, non vedente, residente in provincia di Caserta. Com’era prevedibile l’anziano proprietario, sentito dai militari dell’Arma del suo paese, non solo non seppe dire nella disponibilità di chi fosse l’auto, ma addirittura giurò di non sapere di averla.

Il Caglioma continuò comunque ad investigare, convinto che quell’auto avesse qualcos’altro da raccontare. Al numero di targa corrispondevano alcune multe, tutte recenti e non pagate e tutte per divieto di sosta o altre infrazioni di poco conto, riscontrate dagli agenti del traffico nei quartieri prospicienti l’Interporto Regionale. I colleghi della zona furono in grado di dare qualche informazione in più al maresciallo di Pasticci: riferirono che la vettura veniva utilizzata da tal Donato Mancini, originario dell’Agropontino, sposato e padre di due bambini, oltre che disoccupato e pregiudicato per reati connessi allo spaccio di droga, alla ricettazione e al contrabbando. I reati ascritti erano stati commessi tutti nell’area circumvesuviana; area dalla quale si era trasferito in zona Interporto poco più di tre anni prima e dove aveva lasciato ufficialmente la residenza. Gli uomini dell’Arma lo degnavano delle loro attenzioni fin dal suo trasferimento ma, fino al momento, avevano ritenuto di non agire in attesa di avere fra le mani prove schiaccianti e sufficienti per inchiodarlo in carcere un bel po’ di tempo.

Ricostruendo la cronologia delle volte in cui la Peugeot era stata vista aggirarsi per le vie di Isolato Quarto, era chiaro al Caglioma che le visite dell’utilitaria sportiva non avevano una cadenza fissa. Era anche chiaro però che, trascorsi una decina di giorni dall’ultimo “avvistamento”, un suo passaggio c’era da aspettarselo. Per questo da qualche sera aveva disposto degli appostamenti nelle vicinanze del Bar Strong e finalmente, dopo tre giorni, i militari la videro arrivare. A bordo le solite quattro persone, sicuramente l’intera famiglia Mancini. Dai vari punti di appostamento i militari videro l’uomo scendere dalla macchina ed entrare nel bar, consumare qualcosa al banco e guardarsi intorno come se aspettasse l’arrivo di qualcuno. Invece aspettava un cenno da chi c’era già, seduto sulla sedia a rotelle al solito tavolino che nessun cliente, abituale o occasionale che fosse, si sarebbe mai sognato di occupare in assenza di Aniello Cinà; tanto meno di avvicinarcisi senza il suo consenso quand’era presente. Il cenno di consenso all’avvicinamento fu lieve ma non sfuggì all’attenzione dei carabinieri che sospettavano già un legame fra quelle visite e la banda dell’infermo. Onofrio e Orlando, i due sodali del capo, si alzarono immediatamente senza bisogno di ricevere alcun ordine, lasciandolo solo con il forestiero.

Il Boss di Isolato Quarto e il Mancini tirarono fuori entrambi varie carte dalle tasche: le consultarono; se le mostrarono a vicenda; ci picchiavano sopra alternativamente e ripetutamente con il dito medio, come a voler rimarcare qualcosa che c’era scritto. I carabinieri, favoriti dalla scarsa illuminazione esterna e dalla luce al neon interna al locale, oltre che dai grandi sporti senza tende, riuscivano ad osservare abbastanza bene la scena. Più volte, mentre continuavano nella loro discussione, i due compari rivoltarono i fogli che avevano fra le mani per scriverci qualcosa dietro. Ai militari che li stavano guardando sembrò che facessero delle operazioni matematiche ma, da quella distanza, nessuno di loro avrebbe potuto giurarlo. Il tutto durò all’incirca una ventina di minuti, poi i due squallidi soggetti rinfilarono nelle tasche i fogli mezzo accartocciati e si congedarono senza quasi salutarsi.

Il Caglioma stava osservando tutta la scena da dietro le tendine di un pullmino Bedford, preso in prestito per l’occasione da un ex compagno di università della moglie con cedimenti nostalgici verso il periodo dei figli dei fiori. La sensazione che ebbe fu quella di averci davanti un imprenditore che tira le somme del mese insieme al suo commercialista, senza capire però chi dei due rivestisse il ruolo dell’uno e dell’altro.

Quando l’utilitaria francese ripartì due degli uomini del Caglioma, come stabilito dapprima, la seguirono con l’auto privata di uno di loro; d’altra parte il parco auto della Stazione di Pasticci non contemplava nemmeno un’auto civetta. Intanto il maresciallo informò il Nucleo Operativo chiedendo che la vettura venisse intercettata e seguita in incognita con un’auto dell’Arma. Da quel momento a prendere in mano la situazione fu il tenente Italo Galassi, capo del Nucleo Operativo Radio Mobile, attenendosi a tutte le indicazioni e a tutti i suggerimenti che il maresciallo continuava a fornirgli in tempo reale. In particolare, il maresciallo, sottolineò la presenza dei bambini a bordo dell’auto sospetta e che non esisteva ragione al mondo che giustificasse la messa a repentaglio della loro incolumità.

Con ogni probabilità il Mancini, dopo l’incontro con il Cinà, se ne sarebbe tornato verso l’Interporto e, di conseguenza, anche le probabilità che avrebbe imboccato la superstrada che porta verso il mare erano molte alte. Nei pressi della Rotatoria che fa da imbocco alla strada di grande comunicazione, una manciata di chilometri a Ovest di Pasticci, fu fatta convergere una Gazzella impegnata nel controllo del territorio. Alla pattuglia fu data la disposizione di simulare un posto di controllo di routine ma dovevano fermare, solo ed esclusivamente, una Peugeot 205 GTI di colore rosso con una famiglia a bordo: nel caso il conducente avesse obbedito all’alt dovevano limitarsi alla registrazione dei documenti, guadagnando il tempo necessario a farsi raggiungere dal tenente; nel caso in cui il conducente avesse invece forzato il segnale, per nessun motivo avrebbero dovuto reagire con l’uso delle armi o buttandosi all’inseguimento. Intanto la Fiat Uno con targa di “copertura” civile, guidata dal carabiniere Pierobon, partiva dal Nucleo Operativo con a bordo il Tenente Galassi e l’appuntato Tempestini.


I due carabinieri fermi all’imbocco della superstrada comunicarono immediatamente al tenente che il posto di controllo era stato forzato. Nessuno, a bordo della Fiat Uno dell’Arma, mentre sfrecciavano a tutta velocità nello scarso traffico serale, si stupì della notizia. Il Galassi si limitò a confermare all’equipaggio della Gazzella di non mettersi all’inseguimento: la priorità assoluta era salvaguardare l’incolumità dei due minori a bordo della piccola ma potente autovettura rossa.

Daniele Tempestini riusciva a stare sul sedile posteriore della “civetta” solo con le gambe intraversate e le ginocchia puntate nello schienale del Pierobon. D’altronde non aveva alternative, il posto accanto al guidatore spetta per protocollo al militare più alto in grado e le ginocchia nella schiena del tenente non poteva piantarle. Intanto quest’ultimo e il maresciallo Caglioma, in contatto radio costante fra loro, avevano stabilito di agire su due fronti: proseguire sulla superstrada cercando di ristabilire il contatto visivo con l’auto del Mancini; fargli trovare un comitato d’accoglienza sull’uscio di casa. Ad organizzare il secondo ci pensò il Caglioma con la collaborazione dei colleghi della stazione Interporto; al primo ci avrebbe pensato con piacere il Pierobon anche se, al posto delle ginocchia del collega nei polmoni avrebbe voluto averci sotto il culo l’Alfetta che era stata di suo nonno… allora sì che avrebbe fatto vedere di che pasta era fatto il suo manico!

La Fiat Uno con i tre carabinieri a bordo faceva intanto quel che poteva, ovvero correre sul filo dei centoquaranta all’ora, nemmeno un metro orario in più, ma sufficienti per portarsi se non a ridosso della Peugeot, quanto meno ad una distanza da poterla vedere e poter vedere, nel momento in cui sfrecciava nei coni di luce dei lampioni posti in corrispondenza degli svincoli e delle stazioni di servizio, i movimenti al suo interno. Non far seguire il Mancini da una vettura militare era stata una scelta di prudenza azzeccata e coscienziosa; ciò nonostante il pregiudicato continuava a guidare a velocità folle, zigzagando fra le auto in corsia di sorpasso che non gli davano strada e i camion sornioni che proseguivano placidi in direzione dell’Interporto. Il passaggio sotto i coni di luce a quella velocità dura un’istante, ma uno di quei flash fu sufficiente al tenente per vedere i due bambini agitarsi sul sedile posteriore dell’autovettura e la madre girata indietro verso di loro, probabilmente nel tentativo di calmarli. Nell’istante successivo a Fausto arrivarono contemporanei due ordini: quello del comandante che gli diceva di perdere terreno rispetto alla macchina del Mancini, senza però perderne il contatto visivo, e quello dell’autista di una Saab con il muso ad un metro dal paraurti posteriore dell’auto di servizio che, con lampi di abbaglianti e colpi di clacson, reclamava per sé il dominio esclusivo della corsia di sorpasso. Fosse successo in una circostanza diversa i tre carabinieri avrebbero provveduto a fermare il conducente della Saab, identificarlo ed elevargli le sanzioni relative a tutti gli articoli del Codice della Strada che stava violando. Daniele Tempestini invece cercò solo di rallentarne la corsa per scongiurare ulteriori pericoli, mostrando dal lunotto posteriore della piccola Fiat la paletta rifrangente con la scritta “Carabinieri” e facendo, con l’altra mano, segnalati eloquenti per invitarlo a distanziarsi. L’effetto voluto però fu raggiunto solo quando il carabiniere alla guida azionò la sirena: subito il conducente della berlina, comprendendo evidentemente di trovarsi davanti un’auto appartenente ad una forza di polizia, non solo si pose a distanza di sicurezza, ma ridusse prudentemente la velocità spostandosi nella corsia di destra. Superata la distrazione imprevista il tenente si concentrò di nuovo sui fanalini posteriori della Peugeot. Il Pierobon invece aveva mantenuto un occhio sullo specchietto retrovisore e vide materializzarsi, nello stesso tempo in cui la Saab spostandosi lasciava la visuale libera, i quattro fanali abbaglianti della Lancia Delta Integrale che stavano raggiungendo a velocità pazzesca l’auto dei carabinieri. Un autista qualsiasi si sarebbe fatto sorprendere e, come reazione istintiva all’imminente pericolo, avrebbe frenato e sterzato di colpo nel tentativo di scansarsi. Fausto invece mantenne la velocità inalterata e agì quel poco che fu necessario sullo sterzo per portare le due vetture perfettamente allineate su un unico asse longitudinale immaginario, in maniera tale che l'auto di servizio, se sollecitata da una spinta, anche solo minimamente disassata, non subisse una deriva incontrollabile e fatale a quella velocità. E il tamponamento ci fu.

Il Pierobon mantenne lo sterzo saldo e la reazione della vettura alla spinta del tamponamento fu solo quella di subire un violento balzo in avanti. Dopo il primo urto ne seguì un altro, a distanza di pochi secondi, e anche questa volta se l’auto dei militari non venne sbattuta fuori strada, o sul paracarro centrale, fu solo grazie alla perizia del Pierobon. Intanto il caposervizio si era voltato indietro e Daniele aveva ripreso a fare gesti inequivocabili con la paletta rifrangente e contemporaneamente mostrava il distintivo dal vetro posteriore. La sirena invece era ancora accesa dalla circostanza precedente e gli occupanti della Lancia non potevano non sentirla. Non sarebbe servito l’attraversamento dell’ennesimo cono di luce che mostrò l’atteggiamento beffardo e provocatorio dei due uomini a bordo della Delta, per capire l’intenzionalità volontaria di provocare l’incidente.

I carabinieri, ad eccezione del guidatore, estrassero le pistole dalla fondina e le palesarono in maniera ben visibile agli occupanti della vettura che li stava

tampinando. Per tutta risposta subirono un terzo tamponamento. Fausto Pierobon riuscì a controllare la decelerazione dell’auto inseguitrice senza sbagliare una sola mossa, anche perché la differenza di massa delle due vetture, la velocità e la ristrettezza della carreggiata errori non ne consentivano. Le due vetture percorsero ancora diverse centinaia di metri praticamente incollate e gli occupanti persero il conto degli urti, sempre più lievi e sempre più facili da dominare da parte del carabiniere alla guida. Quando finalmente si fermarono al margine destro della strada dal cofano della Lancia uscivano sbuffi di vapore bianco. Forse anche per questo i due occupanti, poi generalizzati nei proprietari di un’officina di Parvenze, avevano finalmente desistito dalla loro condotta spericolata.


Daniele Tempestini bevve l’ultimo sorso dalla seconda tazza di caffè, poi riprese il racconto:

«Io e il tenente siamo scesi dall’auto prima ancora che fosse completamente ferma, ci siamo portati a ridosso rispettivamente degli sportelli del guidatore e del passeggero e ci siamo qualificati, intimandogli di scendere con le mani alzate».

Il passeggero prima si rifiutò di scendere, poi, una volta a terra, si rivolse con fare minaccioso verso il tenente che aveva di nuovo dovuto intimargli di fermarsi e tenere le mani alzate.

«Quando il tenete Galassi ha tentato di perquisirlo il meccanico ha reagito afferrandolo per il polso destro; per un attimo ho temuto che volesse disarmarlo; invece sono rotolati entrambi a terra dove il tipo è stato placcato dal Pierobon. A quel punto li abbiamo dichiarati entrambi in stato d’arresto. Intanto io ero ancora alle prese con il guidatore che continuava a rifiutarsi di scendere».

«Avrei dato mezzo stipendio per vedere il Pierobon in azione», disse il maresciallo Caglioma sorridendo. L’altro riprese:

«Il più violento era il passeggero, non c’è dubbio. Nel momento in cui pareva che tutto fosse tornato sotto controllo e stavano salendo sulla macchina di servizio, ha agguantato la giacca del tenente strattonandolo e facendogli perdere l’equilibrio. E’ stato allora che il Galassi ha sbattuto lo zigomo nello spigolo dello sportello».

«Spero nulla di grave…»

«Dal sangue che usciva pensavo peggio, invece solo un taglietto e un bell’ematoma con tanto di occhio pesto».

L’appuntato Tempestini proseguì:

«A quel punto li abbiamo ammanettati entrambi. La nostra macchina di servizio, nonostante i danni e il rumore delle ruote che strisciavano sul paraurti deformato, era in grado di camminare; io stavo letteralmente con le ginocchia in bocca».

«Non avete chiesto rinforzi?»

«Eravamo sulla superstrada, sarebbe arrivata sicuramente una pattuglia della “Stradale” e i panni sporchi non sarebbero rimasti in famiglia. Abbiamo richiesto solo l’invio di un carroattrezzi per il sequestro dell’autovettura. Siamo usciti al primo svincolo e abbiamo consegnato i due soci in stato di arresto ai colleghi della Stazione di Montepatri, intanto ci eravamo convinti che volessero fermarci per proteggere la fuga del Mancini».

«Deduzione più che logica, ma sembra non esatta. Il comandante della Stazione di Montepatri mi ha detto che entrambi i meccanici hanno dichiarato di non conoscere nessun Donato Mancini, e sembravano credibili. Hanno giurato di non entrarci nulla con la faccenda della Peugeot rossa».

«Solo una coincidenza allora? Ma se è così perché hanno tentato di buttarci fuori strada?»

«Uno dei due ha dichiarato che volevano la strada libera per provare le prestazioni dell’auto; l’altro invece che avevano fretta di riparare un camion in panne all’Interporto. Adesso spiegheranno meglio le loro ragioni al magistrato, ma non potranno farlo per direttissima perché durante la perquisizione, dalle loro tute, sono saltati fuori degli assegni postdatati su cui è stato chiesto un supplemento d’indagine».

«Bella come bravata, non c’è male!»

«Una bravata, hai detto bene… o una ragazzata innocente, come l’ha definita sul giornale di oggi Lando Faria».

«Vorrei sapere perché quel giornalista sminuisce sempre il nostro operato, soprattutto quando si tratta del quartiere Oltrelago e di Pasticci».

«Non credo che da parte sua ci sia la volontà diretta di sminuire il nostro lavoro, quanto piuttosto quella di far apparire tutta la zona come un’oasi felice. Ricordati Daniele che questo territorio, da quasi mezzo secolo, è governato ininterrottamente dal partito degli azzurri. Adesso che hanno in mano anche il governo nazionale devono dimostrare che loro sono costruttori di Eden in terra. A proposito di costruttori, temo che ci sia dell’altro e voglio vederci chiaro. Ormai da mesi il nuovo vicesindaco si incontra sempre più spesso con Raimondo Pinzagli, un ragazzo della Pasticci bene che si è messo ad organizzare riunioni quasi carbonare un po’ con tutti gli operatori del settore immobiliare. La cosa non mi piace... Adesso però, non dimentichiamoci che dobbiamo risolvere il caso dell’omicidio Loiodice».

«Ci sono novità in merito?»

«Sì, domenica ho parlato con il gestore del bar frequentato da Martino e il giorno dopo anche con la fidanzata. Nel frattempo io e i miei uomini stiamo raccogliendo diverse testimonianze, rilasciate a mezza voce in giro per Isolato Quarto: spero che ricucendole insieme venga fuori qualcosa di interessante».

«Per il momento cosa sai?»

«Eh no, così è troppo facile. Ti anticipo solo una coincidenza: il portachiavi con le chiavi della macchina del fu Loiodice porta il logo di una concessionaria che si trova nel quartiere Interporto: se vuoi sapere di più te lo racconto, ma seduti a un tavolo della trattoria Da i’ Daddi».

«A pranzo? Io finisco il servizio alle quattordici e trenta».

«Aggiudicato. Per il mio stomaco è un po’ tardi, però a quell’ora staremo tranquilli».

«Adesso lasciami recuperare il Mangiapolenta; se Lando Faria vuole davvero dipingere questo paese come il Bengodi, là fuori c’è bisogno di fare grandi pulizie».

Fausto Pierobon quando cammina ondeggia; non lo fa apposta, è il suo portamento e, insieme all’evidente sovrappeso, visto da dietro, sembra un grosso budino poggiato su un tagadà in funzione. Un po’ per questo, un po’ per le sue origini geografiche, i colleghi lo chiamano amorevolmente il Mangiapolenta. Il maresciallo Caglioma si alzò sorridente per salutare l’amico.

«Ma come, ieri sera vi ha salvato la vita e oggi non gli avete dato nemmeno un giorno di riposo?»

«Stai scherzando: dopo l’incidente di ieri al “Nucleo” siamo rimasti praticamente appiedati e stamani, dalla Compagnia, ci hanno mandato un’Alfa Romeo con la trazione posteriore: non sarebbe rimasto a casa nemmeno se fosse stato ingessato».

Il tempo di rimettersi seduto e il telefono sulla scrivania del maresciallo squillò: era il comandante della Stazione Interporto, maresciallo Cesare Sarzana, che voleva aggiornarlo. La sera prima il Mancini aveva parcheggiato sotto casa che era passata mezzanotte da pochi minuti.

«I miei uomini lo hanno bloccato appena sceso dall’auto, non li ha sentiti nemmeno arrivare».

«I bambini?», fu la prima domanda e la prima preoccupazione di Sergio Caglioma.

«Erano sconvolti e piangevano ancora. Nelle tasche dei loro cappottini abbiamo rinvenuto alcune dosi di eroina già confezionata, è evidente che i genitori li usavano come “cassetta” di sicurezza in cui conservare la droga durante il trasporto... e anche come scudi per coprirsi la fuga in caso di bisogno».

«Non c’è dubbio, se i bambini non fossero stati a bordo dell’automobile li avremmo fermati prima». Il comandante della Stazione Interporto proseguì:

«Addosso all’uomo non abbiamo trovato niente. Probabilmente si è disfatto dei “pizzini” di cui mi hai parlato durante la fuga. Dalla borsa della donna invece abbiamo recuperato alcune lettere intimidatorie, pronte per essere recapitate ad alcuni disgraziati finiti nella rete degli strozzini».

«Quindi?»

«Quindi adesso sono entrambi in stato di fermo».

«I bambini?» chiese di nuovo il Caglioma, senza riuscire a nascondere un groppo di apprensione.

«Al momento sono affidati ai Servizi Sociali».



 

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