ASSAGGIO DI UN LIBRICCINO

  


  

   Avevo promesso di presentare qui un piccolo assaggio del libriccino che vedrà la luce tra un po', facendosi largo, quasi dovendo sgomitare, per nascere tra un impegno e l'altro, ma lottando soprattutto con la mia inesauribile autocritica, che vede ovunque motivi di insoddisfazione per ciò che produco e quindi la necessità di continui cambiamenti. E sia: quello che ho deciso di anticipare qui è proprio l'inizio. Il mio riferimento costante è Saint-Exupéry. Ho bisogno, come altri, di rileggere "Il Piccolo Principe" di quando in quando, un po' perché la mia memoria, puramente concettuale, trattiene solo le disquisizioni saggistiche mentre tende a dimenticare le storie, un po' perché, a seconda delle fasi della vita, dentro vi si trovano cose nuove. Non capita mai, non trovate?, di aprire uno scrigno e trovarci dentro preziosi ogni volta diversi; capita, semmai, di trovare che i luoghi e le persone mostrino lati inespressi, sconosciuti: un bosco non è lo stesso a primavera e in inverno. Le cose vive cambiano... Forse allora certi libri vivono. Così, non vorremmo che anche chi amiamo, similmente ad una pianta, ci sorprendesse con lo sbocciare di un fiore?

    Buona breve lettura...





  Se sogni, rondine, di sorvolare l'Africa ogni anno; se, prigioniero, fuggiresti galleggiando su sacchi di gusci dalla Guyana Francese, se viaggi sapendo che la mèta è sempre il percorso; se ti discosti dal pensiero comune, se hai di che dissentire, o se scrivi poesia, ti troverai, prima o poi, di fronte ad un problema come quello di Saint-Exupéry: mostrare serpenti con un elefante nella pancia che verranno scambiati per cappelli. È frustrante, non c'è che dire. Devo pur ammettere che i poeti hanno una gran pretesa a pensare di essere compresi: del resto, confesso, vedendo l'immagine di un elefante in un boa, non la interpreterei correttamente, arrivando semmai a ipotizzare che si tratti di un rettile con un cappello nella pancia. Tuttavia – ho pensato – se tanto chi scrive quanto chi legge sono mossi da un sentimento delicato e potente, possono riconoscersi e forse capirsi: così ho pensato. E, siccome non so dire "ti amo", ho dedicato questa poesia:

 

Hai un prato sulla testa

quasi che le idee

per capillarità

sospingessero vibrisse

dal tuo fertile logos

a captare nessi, ispirazione

e da te radioso spuntasse

il propagarsi etereo e sublimale

di un mondo

da ripensare.

     Non avrei saputo come meglio esprimere il rigoglio vitale di una testa, tanto vigorosa nel suo aspetto quanto prolifica nella sua capacità di pensiero, in una corrispondenza tra esteriorità e interiorità immensamente feconda e ammirevole. Far di meglio, davvero, non avrei potuto, eppure è stata interpretata non, secondo le mie aspettative, come un tributo, ma come un testo ironico e, vista l'alta probabilità dei poeti di risultare incompresi, aggiungerei prevedibilmente. È davvero un peccato, mi tocca constatare, non riuscire ad adeguarsi al linguaggio comune e patire per questo la propria sconfitta ogni volta. Qualcuno ha detto che "il poeta muore ogni sera". In effetti, se siete tra quelli che mostrano boa scambiati per cappelli, o che immaginano di essere rondini, che sanno viaggiare, fuggire o resistere, ma – soprattutto – se non siete bravi a dire "ti amo", vi capiterà spesso di morire e perciò di dover rinascere.

    Allora, "cosa fare?" è l'inevitabile domanda: imparare a dire "ti amo" sarebbe intanto un bel passo avanti: una formula semplice, facilmente comprensibile con cui molti scogli si supererebbero; chissà quante delusioni si eviterebbero con una semplice frase, breve e decisamente efficace. Non posso perciò sottrarmi alla prova, da subito; occorre vincere le proprie debolezze, e l'amore ha senz'altro la caratteristica di esporle tutte, di renderci inermi e inadeguati, instillandoci l'esigenza di strategie con le quali costruirci la speranza credibile di una qualche riuscita.

   L'impegno che ci spinge ad analizzare, comprendere, esprimere i significati più profondi è la base su cui sappiamo essere poggiata ogni cosa seria, potenzialmente duratura. Ecco quindi che riprendo la penna e mi cimento, ancora.

     Almeno per non avere rimpianti.

   Sara Lunghini

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