SETTIMO CAPITOLO - L'Iris che fa i miracoli

 

“…la riuscita di una strategia politica dipende tutta da quanto si riesce a lavorare sottotraccia…”

Illustrazioni di Giacomo Carletti

Oggi le galline vivono in batteria e le uova, tutte uguali come si conviene ad ogni prodotto industriale che si rispetti, gli escono dal culo già con il codice a barre stampigliato sul guscio, tenero e friabile come un brigidino di Lamporecchio. Un tempo però, quando le galline raspavano a terra e becchettavano i sassolini, le uova le compravamo dal contadino e avevano un guscio così duro che, per romperlo, andavano picchiate con forza sul bordo della padella o sullo spigolo di marmo dell’acquaio. Succedeva di rado ma, all’epoca, poteva capitare la stramberia di trovare due tuorli dentro lo stesso uovo.

Ad immaginarsela dall’alto Pasticci, che delle stramberie potrebbe esserne la capitale, con i suoi due centri ricorda una di quelle uova a doppio tuorlo che, sfrigolando nel tegamino, si trasformano in un occhio di bue con due pupille.

Il Centro Vecchio, ma non abbastanza da essere definibile storico, è un nucleo di case basse; uno due o, al massimo, tre piani compresi i fondi a piano strada. Coincide con il primo agglomerato urbano da cui ha avuto origine la comunità pasticcese e, se rapportato al periodo in cui si è formato, non è difficile trovarci una logica razionale nella sua struttura organizzativa pur riconoscendo che, a distanza di una secolata abbondante, manifesta con evidenza indiscutibile la sua inadeguatezza ai ritmi e agli spazi richiesti dalle follie moderne. Ciò non ha tuttavia minimamente intaccato la sua radicata dignità.

L’altro centro, quello nevralgico, è l’attuale cuore pulsante di Pasticci: un cuore invivibile, reso ancora più impraticabile dagli infelici scempi compiuti dalle ultime amministrazioni come, ad esempio, la costruzione di un palazzo che occupa addirittura metà carreggiata di una delle strade più trafficate della cittadina. Esattamente al centro del Centro Nevralgico si intersecano i due viali principali di Pasticci, quello che da Nord va a Mezzogiorno e quello che da Est punta a Ponente, formando un incrocio regolato da un sistema semaforico che farebbe impazzire Archimede Pitagorico. Tutt’attorno decine e decine di pazzesche arnie di cemento armato si sono divorate fino all’ultimo filo d’erba e, adesso, si contendono quei pochi attimi di sole che riescono a penetrare fra le facciate chiazzate, come gigantesche tavolozze di un pittore delirante, dagli infiniti colori di tende e tendoni di ogni tipo e forma; dai panni e lenzuola e tovaglie stesi ad impregnarsi di smog; dai vecchi armadi riconvertiti a ripostigli da balcone e da verande posticce, frutto delle più spericolate fantasie umane.

Che la palazzina con la farmacia del Ceccanti e il Palazzo Comunale si trovino ai cantoni opposti del grande incrocio è un dato di fatto inconfutabile; e lo è anche il fatto che tale situazione di “uscio e bottega” sia una gran comodità per il Soprassata. Chi sostiene che ciò sia un disegno preordinato, e non una sfacciata casualità, però è solo una malalingua perché nel millenovecentottantuno, quando nonno Amintore le comprò per il figlio, sia la palazzina che la farmacia, stavano già lì da almeno vent’anni mentre, il nuovo palazzo del Municipio, fu costruito quando Nero Ceccanti vent’anni non li aveva ancora compiuti.

Anche il circolo degli azzurri si trova poco distante dal Centro Nevralgico di Pasticci e da cui è facilmente raggiungibile a piedi. Ad accomunare i due edifici, Palazzo Comunale e circolo, sono l’anno di costruzione e lo stile architettonico. La peculiarità predominante di entrambi è lo scheletro costituito da esili pilastri e travi in calcestruzzo a faccia vista; pochissime sono le pareti in muratura. La funzione di chiusura esterna degli spazi è assolta prevalentemente da grandi pareti con struttura di anticorodal (il materiale da costruzione più triste che sia mai stato inventato), in parte tamponate con pannelli di lamiera e in parte con vetri fissi o ante di finestre apribili. Le volumetrie dei piani bassi, più esigue rispetto a quelle dei piani superiori, confermano la ricerca stilistica in voga in quegli anni, ovvero l’effetto dei vuoti che sostengono i pieni. In realtà, il risultato ottenuto, è quello di una fragilità esteticamente fastidiosa, probabilmente frutto della ricerca di un punto di rottura rispetto al precedente stile fascista, orientato verso costruzioni dall’aspetto sobrio e solido al tempo stesso. Resta il fatto che i due edifici sono entrambi dei colabrodo energetici e, per tutto l’inverno, lasciano fuoriuscire il tepore prodotto dagli impianti di riscaldamento senza opporre la minima resistenza. In estate, invece, l’effetto forno è confermato da un’infinita precarietà di condizionatori d’aria appesi fuori dai davanzali come fossero gabbiette per uccelli, con il compito di trasformare esorbitanti quantità di energia elettrica in pochissime frigorie che, a stento, rendono sopportabile il microclima interno agli uffici. L’unica differenza fra il Municipio e il circolo va ricercata nelle dimensioni: il secondo sembra il modellino in scala uno-a-dieci del primo.

Se è vero che le lingue battono dove il dente duole, è altrettanto vero che le malelingue battono sulle strane coincidenze. Peccato che a suo tempo, su quella similitudine di progetto e contemporaneità di realizzazione, la lingua (e gli occhi) non ce l’abbia battuta la Magistratura.

*****

Un’ora dopo che vi si era alzato Raimondo Pinzagli, a sedersi sullo scatolone con i fasciatoi della Chicco, fu chiamato il dirigente del settore urbanistica ed edilizia privata del Comune di Pasticci.

Le indicazione che quest’ultimo ricevette dal Soprassata furono poche, inequivocabili e insindacabili ma, soprattutto, costituirono la prima tessera di un puzzle destinato a far girare miliardi di lire… e i coglioni a qualche centinaio di cittadini:

«Quello che ho in mente» esordì il vicesindaco «è la realizzazione di due nuovi insediamenti residenziali…»

«…A Pasticci in questo momento non abbiamo un’emergenza abitativa…» lo interruppe il dirigente. Avrebbe voluto spiegare, se non fosse stato interrotto a sua volta, che il problema era quello opposto, ovvero che la crescita demografica, frutto delle precedenti speculazioni edilizie, comportava una carenza di infrastrutture. Mancavano diverse aule nelle scuole; spazi ricreativi per i giovani e la popolazione sentiva la mancanza di un centro sociosanitario degno di questo nome, grazie al quale avrebbe evitato il pendolarismo verso il presidio di Oltrelago anche per le evenienze più banali. Ma Nero Ceccanti non lo lasciò proseguire: era stato eletto, perdio!; era stato delegato dai cittadini e lui aveva la facoltà di decidere il daffarsi senza dover render conto a chicchessia. E poi non aveva certo tempo da perdere per discutere su ciò che aveva già deciso. Questo il Soprassata non glielo disse, ma il tono e la perentorietà con cui riprese il discorso non lasciarono alcun dubbio al dirigente.

«Serve una revisione del Piano Regolatore che preveda l’edificabilità di due nuove aree che ho già individuato, ma non rifaremo gli stessi errori fatti con la costruzione di Isolato Quarto. Tanto per cominciare aggiorneremo la toponomastica comunale e i due luoghi avranno l’ufficialità di un nome fin da subito: si chiameranno Unghiano e Montignano. Questa volta niente palazzoni ammassati: il primo intervento verrà realizzato sull’unghia di terra incolta fra la foce del Grave e il fiume stesso; il secondo, dal lato opposto, sulla montagnola di terreno di riporto».

«Il terreno di riporto non è la condizione ideale su cui costruire degli edifici…» ma il funzionario venne di nuovo interrotto prima di terminare la frase.

«I problemi tecnici li risolveranno i tecnici; il mio compito è impartire le direttive politiche giuste per far crescere Pasticci. A Unghiano costruiremo piccole palazzine di tre piani ciascuna; a Montignano villette a schiera: si regoli di conseguenza per la definizione degli indici urbanistici. Tenga conto che non abbiamo bisogno di prevedere aree di verde pubblico: intorno di campi ce ne sono anche troppi. Lo stesso vale per le altre superfici accessorie: al momento opportuno metteremo in funzione un valido servizio di trasporto pubblico con cui, i futuri residenti, potranno venire a far la spesa nei negozi, nelle farmacie e nei supermercati di Pasticci; i ragazzi verranno a studiare nelle nostre scuole e i fedeli a inginocchiarsi nelle nostre chiese. Tutti i nuovi abitanti che arriveranno non solo da Parvenze, ma anche dagli altri comuni limitrofi, saranno un’iniezione di vitalità per la comunità pasticcese e anche il ricostituente di cui ha bisogno la nostra economia locale».

«Assessore, capisco che aprire un dibattito sulle decisioni che ha già preso è una cosa che non le interessa e sorvolo sulle considerazioni che avrei da fare. Da parte del mio Ufficio non ci saranno problemi ad apportare le opportune modifiche agli strumenti urbanistici e, mi pare di avere inteso, che non ne incontreranno nemmeno durante gli iter di approvazione da parte degli organismi politici. Ma se i proprietari dei terreni non fossero interessati alla specul…, allo sviluppo che lei ha in testa?»

«Architetto, lei continua a mescolare questioni tecniche con problemi di ordine politico e strategico: si occupi delle prime e lasci che io risolva i secondi». La riunione era finita. Nero Ceccanti, alzandosi, puntualizzò:

«E si ricordi: la riuscita di una strategia politica dipende tutta da quanto si riesce a lavorare sottotraccia; la lungimiranza di un funzionario pubblico è invece direttamente proporzionale alla fiducia che riscuote negli amministratori. Immagino che ci siamo capiti».

«Tutto chiaro!» e con queste parole il funzionario si congedò dallo scatolone della Chicco.

*****

Il maresciallo Caglioma, fin dal suo arrivo a Pasticci nel ruolo di comandante della locale stazione dei Carabinieri, ci aveva visto giusto: i rapporti fra il nuovo vicesindaco e Raimondo Pinzagli si stavano facendo sempre più serrati ed erano qualcosa di anomalo.

Intanto, il presidente del circolo degli azzurri, su esplicita richiesta di Nero Ceccanti, aveva fatto costruire nel cortile una loggia circolare coperta da una sorta di cupola in ferro e rame. Là sotto, la ristretta cerchia di uomini al vertice di Arroganza Nostrale, poteva riunirsi al riparo da orecchie indiscrete, evitandosi l’imbarazzo di precludere ai semplici tesserati la partecipazione alle assemblee di partito che, come d’abitudine e per quieto vivere, continuavano ad essere tenute a porte aperte nella saletta della segreteria del Partito. Da quel momento in poi nelle riunioni ufficiali si parlò solo di fuffa, con lo scopo di mettere in bocca agli elettori qualcosa di cui discutere e dandogli l’illusione di contare qualcosa.

Per l’inverno era già in programma di chiudere con delle vetrate la loggia destinata a diventare, in subordine al magazzino della farmacia, il luogo d’incontro fra la politica e i faccendieri locali: in uno dei suoi rari slanci di euforia, il Soprassata ebbe a dire che là dentro avrebbero fatto miracoli per lo sviluppo di Pasticci. Intanto al Ciabazzi, il pensionato che si occupava di tenere in ordine gli spazi esterni del circolo, fu detto di mettere nella loggia dei vasi di iris in maniera da darle una giustificazione, tanto più che con le vetrate avrebbe preso la parvenza di una serra. Definire l’adunanza di persone che presero a riunirsi sotto la cupola di ferro e rame come L’Iris che fa i miracoli fu una conseguenza spontanea, sollecitata anche dalla necessità di individuare in maniera sintetica ed inequivocabile il nucleo del potere di Pasticci. A ventotto anni di distanza la loggia sotto la cupola c’è ancora e ancora vi si tengono le riunioni: alcune delle facce che partecipano sono cambiate; il “Sistema” è rimasto esattamente lo stesso.

Dalla prassi, e non dalla manifesta volontà di qualcuno, scaturirono tre livelli di importanza e, di conseguenza, di riservatezza per gli incontri a cui partecipava il Soprassata: alle riunioni nella saletta della segreteria del Partito potevano partecipare tutti i tesserati e il livello di riserbo era prudentemente considerato pari a zero; le riunioni nella loggia sotto la cupola erano considerate di livello medio ma, per le questioni di massima segretezza, non c’erano discussioni: il luogo deputato rimaneva il magazzino della farmacia. Qui, il vicesindaco, si incontrava rigorosamente con un interlocutore alla volta e, ultimamente, quell’interlocutore era quasi sempre Raimondo Pinzagli:

«Raimondo, il Comune deve rispettare degli iter burocratici che richiederanno un certo tempo, ma non è un problema perché a noi quel tempo serve tutto per fare le mosse propedeutiche. Oltretutto, se la variazione della destinazione urbanistica dei terreni dovesse diventare di dominio pubblico prima che abbiamo portato a compimento i preliminari di compravendita, l’intera operazione rischierebbe di essere molto meno affascinante».

«A grandi linee ho esposto ai principali costruttori della zona l’idea di costituirsi in un consorzio. I piccoli imprenditori invece, una volta che lo avremo costituito, se non vogliono morire, verranno di loro volontà a chiederci di essere associati o di lavorare per noi».

«E’ un passaggio necessario. Nessuno dei costruttori locali ha una dimensione tale per poter partecipare al bando di Edilizia Convenzionata per la costruzione di Unghiano e Montignano».

L’idea di riunire in consorzio i principali imprenditori del settore immobiliare era, per L’Iris che fa i miracoli, una necessità immediata e anche un investimento per il futuro. Nell’immediato, appunto, quella di costituire dal nulla un soggetto giuridico, totalmente controllato dal Pinzagli, capace di partecipare e vincere i bandi per la realizzazione delle due cittadelle ai lati dello sbocco del Grave; in futuro, la supremazia del consorzio, avrebbe invece consentito alla combriccola di furbetti di tenere per le palle tutti gli imprenditori del comparto e, nello stesso tempo, al Soprassata di avere in mano le redini dell’intero settore.

Come esca per l’adesione alla struttura consortile, oltre al mega appalto, fu sventolata con grande sapienza da parte di Raimondo la sinergia che sarebbe derivata dal consorziarsi e, dalla quale, sarebbero derivate per gli imprenditori grandi riduzioni delle spese gestionali grazie alla condivisione di uffici amministrativi, tecnici e di segreteria, oltre alla riduzione dei costi vivi grazie ad una centrale acquisti condivisa.

Contemporaneamente alla formazione del consorzio, il giovane Pianzagli aveva il compito di costituire un altro soggetto giuridico, questa volta con la prerogativa opposta, ovvero quella di apparire molto modesto per non destare sospetti. Insieme a Nero Ceccanti pensarono ad una esseerreelle con un capitale sociale pari al minimo richiesto dalla legge e, come scopo sociale, lo stoccaggio e il trattamento di materiale di resulta proveniente da costruzioni e demolizioni. Nacque così la Cli.de.c s.r.l., acronimo di CLInica DEl Calcinaccio, della quale lo stesso Pinzagli era socio al duepercento, oltre che unico amministratore al quale lo statuto concedeva pieni poteri. La restante quota del novantottopercento fu affibbiata a un prestanome, tale Focardi Danilo, di professione ferroviere. Per terminare la costituzione della società mancava solo un minimo di liquidità. A fornire il denaro ci pensò direttamente lo stesso Ceccanti, ma non prima di avergli fatto fare, con l’aiuto di un amico bancario di nome Vittorio Sampieri, alcuni giri persi allo scopo di cancellare tutte le tracce che i soldi lasciano quando si muovono e che, diversamente, avrebbero testimoniato un legame fra lui e Cli.de.c. e, di conseguenza, con l’intero intento speculativo.


 

 

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