OTTAVO CAPITOLO - L'Iris che fa i miracoli

 

“…«Assolutamente no: adesso sappiamo dove cercare e dove no»…”

Illustrazioni di Giacomo Carletti

Tante volte capita di vedere poster o sfondi salvaschermo raffiguranti strade lunghe e diritte che, in totale assenza di discontinuità e variabili, attraversano prati verdi e fioriti o sterminati scenari desertici. A sentire alcuni psicologi la strada rappresenta la metafora della vita, mentre l’assenza di intersezioni il sogno illusorio di poter sfuggire al gravame delle decisioni da prendere. Fra queste, le più sofferte sono quelle che, posati sui rispettivi piatti della bilancia tutti i pro e tutti i contro, la lancetta rimane inesorabilmente incollata sulla “N” di neutro. Allora ogni singolo pro e ogni singolo contro deve essere rivalutato, rivisitato, riconsiderato e riposato nuovamente sul rispettivo piatto per un’infinità di volte, nella speranza che la lancetta dia un segnale chiaro. Si tratta di decisioni che pretendono grandi tribolazioni e patemi d’animo e, spesso, preludono a scelte che si riveleranno sbagliate.

Tempo e istinto sono entrambi elementi immateriali ma poiché il primo, a differenza del secondo, pur nella sua inconsistenza fisica è quantificabile, si muovono su due piani differenti e ininterferibili fra loro. Le decisioni prese d’istinto richiedono pertanto un consumo di tempo pari a zero e, non essendo contaminate da calcoli ragionati, si rivelano spesso essere la risoluzione azzeccata fra la rosa delle possibili opzioni.

Ma l’assoluta certezza che la scelta sia giusta possono darla solo le decisioni non-decise: quelle che portano a camminare in una direzione senza richiedere l’intervento della ragione e nemmeno dell’istinto; come se quella direzione l’avesse già decretata il destino e con il destino, si sa, è inutile mettersi a discutere tanto ha sempre ragione lui.

La sera del ventitré novembre del millenovecentottanta, il signor Tempestini avrebbe voluto seguire il telegiornale sul Primo Canale come ogni sera. Ma era domenica e come ogni domenica, per far contento il figlio Daniele, cenarono seguendo la trasmissione Tutte le pedate, minuto dopo minuto, trasmessa da Rete Libera Parvenze, una delle TV locali che da quegli anni cominciavano ad offrire alternative ai programmi Rai fino a dar vita ad una selva indistricabile di canali, per lo più assurdi, e programmi prevalentemente stupidi.

I due “maschi” di famiglia, finita la cena, si ritirarono nella cameretta del figlio dove proseguirono la discussione sulle partite finché a Daniele non prese sonno. Intanto, di là in cucina la signora Tempestini, mentre ne approfittava per riordinare senza averceli fra i piedi, sentì dalla televisione rimasta accesa la notizia di un forte terremoto che, all’incirca un’ora prima, aveva scosso la Campania. Le informazioni di cui disponevano i giornalisti al momento erano frammentarie, vaghe e in attesa di conferma.

La famiglia Tempestini, originaria per metà di Pasticci e per la metà da parte di mamma della Lucania, in Campania non aveva parenti e nemmeno amici. Per questo la mamma di Daniele non dette troppo peso al fatto appena appreso e, spenti il televisore e la circolina al neon della cucina, raggiunse il marito che nel frattempo si era infilato nel letto grande.

La mattina successiva, in casa Tempestini, il lunedì si preannunciò un giorno feriale come tutti gli altri: il padre, prima di uscire di casa, lanciò a Daniele l’ennesima incitazione ad alzarsi; Daniele rispose al saluto continuando a rinviare l’emersione da sotto le coperte di secondo in secondo; la mamma, come tutte le mamme del mondo, stava spianando la giornata al figlio preparandogli i vestiti sulla poltroncina, la colazione sul tavolo e la merenda in cartella.

Lo squillo del campanello, seguito a ruota da sette rintocchi della campana della torre civica, non allarmò la mamma di Daniele. A suonare alla porta, a quell’ora di mattina, potevano essere un’infinità di persone: dal lattaio per lasciare il conto della settimana precedente all’inquilina del piano di sotto, bisognosa di una mano per alzare dal letto la madre inferma; dalla signora Ralli che chiedeva di farle un’iniezione perché si era svegliata un’altra volta con la schiena bloccata a Ezio che, rientrando dal turno di Metronotte al mercato centrale, regalava al vicinato un po’ della verdura invenduta che aveva racimolato dai grossisti. Ma una coppia di carabinieri sull’uscio di casa la signora Tempestini non se l’aspettava davvero.

A parlare per primo fu il meno giovane fra i due ragazzi con la fascia rossa sui gambuli dei pantaloni:

«Buongiorno, è la signora Laguardia?» Si capiva che voleva sorridere ma non gli veniva.

«Sì» rispose la mamma di Daniele, alla quale invece il sorriso le stava perdendo lentamente di vigore.

«Possiamo entrare?» chiese il carabiniere girandosi fra le mani una cartelletta rigida con la copertina azzurra.

«Avanti…», e nel dirlo indicò istintivamente la porta della cucina. Subito dopo ci ripensò e avrebbe voluto correggere l’indicazione indirizzando i due visitatori verso il salotto. Ma era tardi: già stavano andando verso la cucina. La donna, mentalmente, ricostruì tragitti e relative tempistiche degli spostamenti del marito da casa fino alla fabbrica: era uscito da nemmeno un quarto d’ora e concluse che, anche nelle peggiori delle ipotesi, non ci sarebbe stato abbastanza tempo perché i carabinieri fossero già lì ad avvisarla… di chissà poi quale disgrazia. Tratte le sue conclusioni recuperò un po’ di tranquillità.

«Lei è la figlia di Ottavio Laguardia e della signora Michelina» fu la domanda senza interrogazione, fatta sempre del meno giovane fra i due. Una domanda scontata, pronunciata per dovere di rito e per prendere tempo. Nello stesso istante in cui la domanda veniva pronunciata, nella mente della mamma di Daniele saettò un lampo che congiunse la notizia della sera prima con la presenza dei due militari e si lasciò cadere, senza resistenza, sulla sedia più vicina.

«Siamo stati contattati dai nostri colleghi di Balvano signora, ieri c’è stato un brutto terremoto che pare abbia fatto grossi danni. Da allora dei suoi genitori non abbiamo notizie; la loro casa, come molte altre del paese, è crollata. I soccorritori sono arrivati sul posto da poco e stanno facendo tutto il possibile per salvare la popolazione». Prima di proseguire, il meno giovane, raccolse dallo sguardo del commilitone più giovane tutto il coraggio che poté trovarci perché, il suo, non era sufficiente per portare a termine il messaggio:

«Ci riferiscono di avere ragione nel credere che i suoi genitori siano intrappolati sotto le macerie… verrà fatto tutto il possibile per salvarli».

Dopo quella frase la mamma di Daniele ricorda di avere udito solo ronzii e piccoli rumori lontani, secchi o ovattati che si alternavano fra di loro. Quanto erano distanti da lei i suoni che sentiva? Non riusciva a collocarli nello spazio. E cosa ci faceva lì suo marito? Ma non doveva essere a lavoro? Si ricordava bene di averlo salutato e visto uscire. Perché era tornato? E perché Daniele non era a scuola? Il carabiniere che le aveva tenuto la testa, mentre beveva l’acqua dal bicchiere che le aveva porto, era ancora lì: parlava con suo marito… Ma allora era tutto vero!

Daniele era entrato in cucina strascicando lo zaino e la voglia di andare a scuola. Sono passati trentasette anni e, ancora oggi, non saprebbe dire se a colpirlo di più fu l’immagine della mamma che si teneva la testa fra le mani o la presenza dei due uomini in divisa. E come si permettevano di comportarsi come se fossero a casa loro? Uno dei due uscì dalla cucina e, in corridoio, si mise ad armeggiare alla rubrica del telefono. L’altro apriva e chiudeva cassetti e ante dei pensili. Poi, finalmente, sembrò che entrambi avessero trovato quello che cercavano: il primo telefonò a qualcuno; parlava sottovoce e Daniele non capì di cosa e a chi stesse chiedendo di tornare a casa appena possibile. L’altro, dopo aver trovato il bicchiere aveva trovato anche il barattolo dello zucchero. Poi, il più giovane dei due, chiese a Daniele di fargli vedere la sua camera. Chi l’avrebbe mai detto: anche lui era un tifoso della Parventana e raccontò di avere gli stessi poster appesi nella sua stanza. E poi si trovarono d’accordo anche su quello che era successo il giorno prima: se non gli avessero negato quel rigore (era chiaro come il sole che c’era!) un punto la Parventana l’avrebbe guadagnato e adesso sarebbe sesta in classifica, ancora in bazzica per la Coppa dei Campioni:

«Senti Daniele, oggi a scuola non ci andrai. Alla maestra glielo andiamo a dire io e il mio collega».

«Io non ce l’ho più la maestra, sono in prima media».

«E allora glielo andiamo a dire ai professori». Daniele teneva e temeva quel colloquio: lo teneva con la massima attenzione per rimanere sulla neutralità di “genere”, non sapendo se dargli del “tu” a quel carabiniere che si dimostrava così amico, quasi compagno di non capiva cosa, oppure del “lei” come avrebbe dovuto in virtù del ruolo, dell’età e della divisa che portava. E lo temeva: cosa ci facevano i carabinieri in casa sua a quell’ora? E se anche fosse stata un’altra ora, cosa sarebbe cambiato?

«I professori ci hanno detto che il passaggio dalle elementari alle medie è un salto importante e bisogna fare meno assenze possibile».

«Vorrà dire che appena finito il turno vado dai professori a farmi dare i compiti e li facciamo insieme. Ti fidi se ti aiuto io?» E come avrebbe potuto non fidarsi di un tifoso della Parventana?

Il babbo di Daniele entrò nella cameretta senza che Daniele lo avesse sentito rientrare in casa. Solo allora si rese conto dell’orario e che, se anche fosse uscito subito e si fosse messo a correre, avrebbe fatto tardi a scuola e temette di essere sgridato. Il carabiniere con cui aveva passato l’ultima mezz’ora a parlare di calcio, di scuola, di fumetti e di telefilm americani diede la mano al signor Tempestini; salutò Daniele invitandolo ad andare a trovarlo in caserma e uscì.

Il padre guardò Daniele ma invece di sgridarlo gli disse che aveva bisogno di lui; che doveva comportarsi da ometto e di prepararsi qualcosa che bisognava andare dai nonni a Balvano. Per strada avrebbero parlato; gli avrebbe spiegato tutto. Intanto disse soltanto:

«Non fare arrabbiare la mamma».

“Perché” si chiese Daniele, “quando mai la faccio arrabbiare?” Dalla finestra guardò i due carabinieri salire lenti, quasi senza forza, sul pullmino Fiat 900 con il lampeggiante blu proprio al centro del tetto bianco e pensò “quando sarò carabiniere mi comporterò come loro”. Senza saperlo, aveva appena preso la più grande non-decisione della sua vita.

*****

L’appuntato Daniele Tempestini si riscosse dai suoi pensieri quando Fausto Pierobon frenò davanti alla trattoria Da I’ Daddi. Erano le quattordici e trenta in punto e il loro turno di servizio era terminato... o quasi: il Pierobon doveva riportare l’Alfa in caserma.

La tensione per l’inseguimento e l’incidente della sera precedente era ancora viva nelle “corde” dell’appuntato. La piacevolezza di mettere le gambe sotto al tavolo insieme all’amico maresciallo, seppur per parlare di lavoro, lo avrebbe però disteso e rasserenato. Il maresciallo Caglioma, dal canto suo, quando vide l’amico entrare nella veranda dell’osteria, chiuse il giornale scuotendo la testa e si alzò per salutarlo:

«Stavo leggendo un articolo di Lando Faria», disse come per giustificarsi.

«L’ho immaginato da come scuotevi la testa. Ha travisato un altro fatto di cronaca?»

«No, questa volta pontifica sul rilancio dell’economia locale; ha riempito un’intera pagina. L’ho appreso adesso leggendo: a Pasticci è stato approvato il nuovo Piano Regolatore… Mangiamo, ma poi con calma voglio finire di leggere tutte le esaltazioni che ha scritto».

Si erano dati appuntamento per parlare dell’omicidio Loiodice e, il maresciallo, vi ci portò il discorso senza perdere tempo. Iniziò raccontando del colloquio che aveva avuto due giorni prima con il gestore del bar California. L’appuntato lo lasciò terminare prima di esporre la sua perplessità:

«Possibile che il Maresca non conosca Onofrio Cinà e Orlando Cuccioni?»

«Certo che li conosce, ma te l’ho già detto, nessuno in tutta Pasticci e nemmeno in provincia di Parvenze farà mai il loro nome».

«La descrizione dei due personaggi e della Mercedes però sono inequivocabili».

«Appunto, si è spinto fino dove ha avuto il coraggio di farlo. Da lui più di questo non sapremo ma a noi, per il momento, ci basta per sapere che Martino Loiodice, in qualche modo, aveva a che fare con i Cinà».

«E dai racconti della fidanzata è venuto fuori qualcosa di interessante?»

«Ha precisato di non essere più la sua ragazza; continuavano a frequentarsi occasionalmente ma non stavano più insieme».

«Cosa cambia?»

«Per noi nulla. Ho notato fin da subito che Erminia, così si nome, durante la deposizione era molto tesa. Forse voleva solo svalutare il rapporto che la legava alla vittima». Dopo la pausa per ordinare all’oste di portare semplicemente quello che gli pareva riprese:

«Sostanzialmente ha confermato quanto detto dal barista. Il Loiodice, anche a detta di lei, negli ultimi tempi era cambiato molto e non solo nel millantare se non ricchezza, quanto meno una capacità di spesa che prima non aveva. La fidanzata, o ex fidanzata, mi ha raccontato che avevano preso a frequentare spesso una discoteca, cosa che prima non avrebbero potuto permettersi».

«Sempre la stessa… intendo sempre la stessa discoteca?»

«Sì, la Lucciole per Lanterne di Quarriana».

Ma la cosa che a Erminia era parsa strana, ripensandoci dopo l’omicidio, era che Martino nell’ambiente era molto conosciuto. A volte, nonostante fosse esageratamente geloso, la lasciava da sola sui divanetti o in pista a ballare con persone a lei per lo più sconosciute. Poi tornava anche dopo parecchio tempo e a volte anche sbronzo:

«So cosa mi stai per chiedere: “No, Martino non si drogava. Aveva preso a bere, anche parecchio e quando lo faceva diventava violento. Per questo ci siamo lasciati. Ma drogato no!”… Ha risposto in questo modo alla mia domanda esplicita se Martino si drogasse. Oltretutto la circostanza è ampiamente confermata dall’esame autoptico».

«E con questo l’illazione del Faria è definitivamente decaduta».

«Avevi dubbi che un’ipotesi di quel giornalista potesse avere fondamento?»

«Nemmeno per un’istante».

«Comunque, probabilmente per dare forza alla sua ricostruzione e al fatto che non erano più fidanzati, la ragazza mi ha raccontato di una volta che era andata a trovare il fidanzato a casa. Lei aveva intenzione di ascoltare la musica da quello stereo che Martino aveva comprato e che funzionava, parole sue, “come la discoteca”. Le intenzioni di lui invece erano tutt’altre; in casa non c’era nessuno e dopo qualche canzone la spinse sul letto matrimoniale dei genitori: voleva fare l’amore. Lei, siccome non stavano più insieme, si rifiutò e allora fu presa con la forza. Ne usci con qualche livido e qualche graffio, ma da quel giorno ha sempre cercato di evitarlo, almeno così mi ha detto».

«Dunque da quella volta non si sono più visti?», chiese l’appuntato.

«Certo che si sono visti, lui continuava a cercarla, a volte l’aspettava fuori dal negozio. Hanno continuato a frequentarsi in maniera sporadica e ci sono stati altri casi in cui lui ha avuto manifestazioni violente, non accettando la fine della relazione».

«Un bel modo per cercare la riconciliazione, non c’è che dire».

«Ho lasciato che parlasse dei loro rapporti personali per capire qualcosa di più sulla personalità di Martino Loiodice, e soprattutto per capire come e in cosa era cambiato. Sempre a detta della ragazza, da un po’ di tempo la tradiva o, come ha detto lei, “aveva preso a farsela” con una certa Gabriella Rimato. Secondo me la chiave della questione sta tutta lì: nei suoi cambiamenti. E poi volevo che Erminia si sciogliesse prima di farle le domande più interessanti». Domande alle quali la parrucchiera aveva risposto con naturalezza, quasi senza capirne l’importanza rapportata alle circostanze.

«Quando ancora stavano insieme Martino più volte le aveva detto che la sera, dopo cena, non si potevano vedere perché doveva fare i ritiri».

«Che tipo di ritiri?»

«Non credo spirituali. Immagino droga, ma la ragazza mi ha detto di non avere mai approfondito. Però a volte Martino si era vantato con lei di aver picchiato qualcuno che, durante i ritiri, non aveva rispettato i patti. C’è dell’altro: Erminia mi ha parlato di un tipo, lo ha definito un buon amico della vittima con il quale si vedeva spesso ma del quale sa solo che si chiama Giuliano e che ha una Volvo. Martino glielo ha presentato una volta in discoteca, dice che avrà più o meno una cinquantina d’anni e che, per questo, nel locale ci stonava. Una volta i due si misero a discutere, anche se in maniera tranquilla. Parlavano di un ritiro e Martino continuava a dire che era troppo poco, probabilmente riferendosi ad una cifra di denaro».

«Tirando le somme viene fuori che non si drogava ma nel giro dello spaccio c’era dentro fino al collo. I Cinà l’hanno fatto fuori per questo?»

«Piano con le conclusioni; ti ricordo che solo ieri durante un tallonamento hanno cercato di buttarvi fuori strada. Tutto faceva pensare che i due fatti fossero in relazione fra loro e, la prima conclusione, è stata che il tamponamento avesse lo scopo intenzionale di interrompere il pedinamento. Poi, invece, abbiamo appurato che si è trattato di una coincidenza e i due eventi sono scollegati fra loro. Evidentemente la delinquenza è più diffusa di quanto sembri e, a volte, gli avvenimenti delittuosi finiscono per sovrapporsi fra loro. Io credo che l’omicidio e la presenza dei Cinà al bar California siano entrambi legati al cambio di stile di vita del Loiodice, ma non in relazione diretta fra di loro».

«Cosa te lo fa pensare?»

«Come ti dicevo, questa mattina ho ricevuto la relazione dell’autopsia dalla quale, oltre alla conferma che il Loiodice non si drogava, vengono fuori molte cose interessanti per la ricostruzione dell’aggressione. Secondo il medico legale il primo colpo ricevuto dal povero cristo è stato quello alla nuca: un colpo estremamente violento ma non abbastanza da provocarne la morte immediata. Per infliggerlo l’aggressore ha usato sicuramente un oggetto che offre una presa salda, mentre l’estremità che ha colpito la vittima termina con una forma rotonda e seghettata. Verosimilmente si tratta del crik di un’utilitaria Fiat. A provocare la morte quasi istantanea del disgraziato è stata invece la perforazione dei polmoni, raggiunti da almeno tre dei quattro colpi sparati alla schiena. Al momento dello sparo la bocca di fuoco si trovava a non più di due metri dal punto d’impatto dei proiettili con il corpo, mentre la traiettoria è leggermente angolata dal basso verso l’alto rispetto all’asse verticale della persona. Il quinto colpo, quello sotto l’orecchio destro, gli ha frantumato la testa del condilo: è stato l’unico colpo non letale ma, se fosse sopravvissuto, gli avrebbe condizionato la vita in maniera infernale. Dunque, stando alla ricostruzione che emerge dall’autopsia, e che io condivido in pieno, Martino è stato dapprima colpito violentemente alla nuca con l’oggetto contundente. In seguito alla botta è caduto in avanti sbattendo la faccia, ipotesi che troverebbe confermata in una ferita lacerocontusa in corrispondenza dell’arcata sopraccigliare destra. Una volta caduto a terra l’assassino, o gli assassini, si sono ritrovati dal lato dei piedi della vittima. Da quella posizione hanno esploso i cinque colpi, tutti con la stessa arma, presubilmente una Beretta di piccolo calibro. La posizione relativa fra il corpo ormai a terra e lo sparatore spiegherebbero l’angolatura dei fori d’ingresso dal basso verso l’alto: se la vittima fosse stata in piedi chi li ha esplosi si sarebbe dovuto trovare in ginocchio, posizione sconveniente per un aggressore che, istintivamente, ricerca stabilità per fronteggiare un’eventuale reazione della vittima ed essere nello stesso tempo pronto alla fuga».

«Un’esecuzione vera e propria».

«Giusto, per questo non ci vedo la mano della banda Cinà: ci sono troppo incongruenze con il modus operandi della criminalità organizzata. Proviamo a rimettere insieme le informazioni che abbiamo: Martino Loidice a un certo momento inizia ad avere una disponibilità di denaro insolita, sia per lui che per le possibilità della sua famiglia; disponibilità incompatibile con l’attività di fruttivendolo ambulante e con qualsiasi altra attività che abbia potuto svolgere alla luce del sole. Nel contempo iniziano alcune frequentazioni strane: a proposito, darei per scontato che il Giuliano della Lucciole per Lanterne sia lo stesso con cui si incontrava davanti al bar California. Altrettanto probabilmente si era messo a fare il corriere per conto di qualche spacciatore e, non contento, chiedeva soldi in prestito per acquistare alcune partite di droga da vendere in proprio, sulla piazza di Isolato Quarto o nella discoteca che frequentava con Erminia. E questo, che lavorasse per loro o per la concorrenza forestiera, può avere infastidito il clan dei Cinà».

«Fin qui mi pare non ci sia una piega».

«Giusto, infatti è da qui che le cose non mi quadrano. La cosa che meno di ogni altra vogliono le cosche malavitose sul territorio che controllano, è l’interferenza delle forze dell’ordine… E un omicidio le attira come api sul miele... No, Aniello Cinà è un professionista: prima di arrivare ad un’esecuzione di questo tipo sarebbe ricorso ad altre vie coercitive, tipo farlo mantecare qualche decina di minuti fra le mani del Cuccioni e, sicuramente, senza mandarlo a cercare al bar».

«Però non possiamo escludere che altre azioni di convincimento ci siano state in precedenza e non abbiano portato al risultato sperato».

«Escluderei anche questo. In ogni caso, qualunque cosa abbia fatto o avesse in testa di fare Martino Loiodice, era un pesce piccolo in proporzione allo sconquasso che provoca un omicidio».

«Potrebbe aver visto o saputo qualcosa di sconveniente».

«Hai ragione, è un’ipotesi che ho preso in considerazione anch’io. Ma anche in questo in caso, oltre a non giustificare la sopraggiunta disponibilità di denaro, non fa il paio con le modalità operative. La malavita organizzata non trasporta cadaveri in giro per il paese: dove ti fredda ti lascia, tanto più se l’uccisione deve servire d’esempio anche ad altri è bene che il corpo resti in vista; occultarlo lungo un sentiero ne riduce l’effetto intimidatorio… No, trasferire un cadavere, poniamo da Isolato Quarto, alla collina dov’è stato rinvenuto comporta un rischio che non è giustificabile. Oltretutto lascia delle tracce nella vettura che è stata utilizzata. Se dovessi pensare un omicidio commesso o commissionato da una banda organizzata, allora sulla collina mi immaginerei di trovare la carcassa incendiata di una vettura di grossa cilindrata rubata due ore prima; di sicuro non il corpo della vittima».

«Allora siamo punto e a capo?»

«Assolutamente no: adesso sappiamo dove cercare e dove no».

«Quindi lasciamo perdere i vertici della malerba e razzoliamo nella manovalanza spicciola».

«Bravo, ma non in quella che fa le rapine per campare: teniamo presente che addosso al Loiodice abbiamo ritrovato un sacco di soldi in contanti. Mi è stato anche confermato che la catena che portava al collo e il braccialetto hanno un discreto valore, ma niente è stato toccato». Il Caglioma fece una pausa: «Mi aspetto una mano da te: gli uomini che ho a disposizione alla Stazione sono impegnati fin sopra i capelli con le faccende di routine».

La chiacchierata aveva fatto bene ad entrambi. Il maresciallo le conclusioni esposte le aveva già tratte, ma aveva bisogno di dibatterle con qualcuno di cui si fidava per crederci fino in fondo.

A quell’ora erano rimasti gli unici avventori dentro la trattoria. Il Daddi uscì dalla cucina per riscuotere il conto; aveva le manone bianche chiazzate di rosa di chi ha maneggiato grossi pezzi di carne cruda.

«La Finzione me la prendo in prestito, c’è un articolo che mi interessa finire di leggere» disse il Caglioma salutando il ristoratore. Poi salutò l’appuntato: «Io torno in ufficio, tu che programmi hai?»

«Vado a prendere qualche caffè in giro per Isolato Quarto…» ribatte il Tempestini sorridendo.

«Allora, fra un caffè e l’altro, vedi se riesci a sapere qualcosa anche su Gabriella Rimato: prima di coinvolgerla direttamente nelle indagini voglio capire il ruolo effettivo che aveva nella vita di Martino. Ti aspetto domani in tarda mattinata da me per fare un nuovo punto della situazione. Con il tenente Galassi ci parlo io, stai tranquillo».

Durante il tragitto di ritorno verso il suo ufficio, il maresciallo Caglioma, aveva preso la decisione di separare le indagini sull’omicidio in due tronconi ben distinti fra loro. Capire, da una parte, da dove proveniva la disponibilità di denaro del Loiodice e, dall’altra, il motivo per cui era stato ucciso, due domande che dovevano cercare risposte percorrendo binari ben distinti; la risposta ad una delle due avrebbe sciolto i nodi anche dell’altra. Almeno questo gli suggeriva il suo istinto.

 


 

Commenti

Post popolari in questo blog

LO SCRIVIAMO INSIEME?

"FA' PARLARE DI TE" - Concorso letterario senza classifica -

TENTATA RAMPA A PONTE A SIGNA!!!