NONO CAPITOLO - L'Iris che fa i miracoli

 

“…le aveva addirittura vinte doppie…”

Questa storia della democrazia o, come la pronuncia lui con la sua boccuccia tonda affogata nelle guancione gonfie, demograffia, al Soprassata rimane parecchio sui coglioni. Può capire le votazioni per eleggere il capo di uno stato o, come nel suo caso, il capo di un comune: da un punto bisogna pur partire per decidere chi comanda. Ma tutto il resto è solo una zavorra inutile che rallenta e ostacola ogni percorso di crescita e di miglioramento. Secondo il suo modo di concepire la politica, per il governo di una comunità, a qualsiasi livello, ci vuole uno che si preoccupi del benessere collettivo; che abbia la dovuta vocazione e la giusta devozione e il coraggio che serve per incanalare la collettività nella direzione più propizia: basta UNO!, …i cittadini non dovrebbero perdere tempo con la politica, ma remare tutti all’unisono, con le maniche rimboccate bene bene, per raggiungere l’obiettivo che colui che hanno eletto si è prefisso di conseguire. E lui era stato eletto; aveva vinto le lezioni del diciotto e diciannove giugno dell’anno precedente e non una volta sola, le aveva addirittura vinte doppie: con il partito e con la lista civica farlocca!

E invece? Un anno!, un anno intero c’era voluto, maledetta burocrazia, per approvare la Variante al Piano Regolatore che avrebbe consentito, finalmente, di incamminarsi verso la costruzione delle palazzine e delle villette a schiera a Unghiano e a Montignano. Un anno sprecato e, tutto, grazie a quelle che chiamano le garanzie democratiche e che, invece, sono solo pastoie burocratiche che tengono legati i piedi dello sviluppo; che ostacolano e che rallentano le buone iniziative finalizzate a creare benessere e ricchezza.

“Un anno…” rifletteva Nero Ceccanti… e sentiva la bile salirgli in gola… E pensare che tutto era filato liscio come l’olio, sennò vai a sapere quanto tempo ci sarebbe voluto!

La Variante era stata discussa in tutto tre volte nelle due Commissioni Consiliari ritenute competenti, senza trovare la minima resistenza da parte dei consiglieri di opposizione. L’unico che opposizione avrebbe voluto farla era Beniamino Valeri ma, purtroppo o per fortuna (a seconda dei punti di vista), non sedeva in nessuna delle due Commissioni coinvolte. Per la verità aveva provato a chiedere ad alcuni colleghi, sempre dell’opposizione, la delega per parteciparvi ma, tutti, gli avevano risposto di avere intenzione di presenziare e quindi non gliela avevano concessa. Al Valeri non rimase quindi che assistervi da uditore senza poter intervenire, ma ciò gli consentì di constatare che i consiglieri a cui aveva chiesto la procura per sostituirli o erano assenti o non proferirono parola. Ripercorrendo mentalmente tutta la vicenda, giunto a questo punto, il Ceccanti sentì la bile tornare in posizione di quiete e si complimentò con se stesso: era stato abile a convincere le opposizioni senza imporre niente a nessuno; solo poggiando la mano sulla spalla e sussurrando consigli fraterni, aveva smorzato ogni velleità di intralciargli i programmi. E’ vero, c’era ancora quel legno torto di Beniamino Valeri che pareva non avere nessuna intenzione di lasciarsi raddrizzare… “ma è uno su trenta consiglieri” sogghignò fra sé il Soprassata prima di concludere: “non sarà né lui, né quella schiera di sparuti pseudo attivisti che lo sostengono a fermare la benefica iniezione di calcestruzzo che Pasticci si merita”.

Per la Variante al Piano, l’inevitabile scrutinio nelle altre assemblee comunali preposte, più che una votazione andrebbe definito la mera presa d’atto di una fatalità. Ma in fondo, quale definizione potrebbe essere migliore di fatalità, per un programma partorito dalla mente di un comitato d’affari impalpabile, almeno dal punto di vista giuridico e amministrativo, che si autodefinisce L’Iris che fa i miracoli?

L’ultimo atto dovuto prima che le modifiche al Piano Regolatore fossero sancite in maniera ufficiale era il passaggio in Regione. Anche per la velocizzazione di quest’azione conclusiva, il vicesindaco si complimentò con se stesso: se non avesse mobilitato Mario Netta, all’epoca presidente del Consiglio Regionale ma destinato a diventare Primo Ministro qualche decina d’anni più tardi, la ratifica senza obiezioni e senza osservazioni sarebbe stata una chimera e i tempi, per il ritorno in Comune della Variante, biblici.

Terminate le riflessioni postume, Nero Ceccanti concluse che il primo tassello del suo progetto era stato messo a segno e con successo... e un successo va sempre sancito nella maniera opportuna. Tanto più, guai a dimenticarselo, fra quattro anni quella cazzo di demograffia gli avrebbe imposto di ripassare dal vaglio delle elezioni, almeno che, nel frattempo, qualcuno di buonsenso non avesse pensato bene di smantellarla o, perlomeno, renderla innocua. Per questo tirò su la cornetta del citofono e, dal retrobottega della farmacia, dettò alla segretaria degli ambulatori un testo autocelebrativo con cui informare tutti i pasticcesi che, grazie alle ampie vedute della Nuova Amministrazione, importanti e sostanziali modifiche erano state apportate agli strumenti urbanistici comunali, aprendo così la strada a innovazioni che si tradurranno in benessere, posti di lavoro e ricchezza per tutti gli abitanti.

Era la tarda mattinata di lunedì undici giugno millenovecentonovanta, per l’esattezza era trascorso un anno meno una settimana dalle elezioni: il Soprassata chiuse la conversazione interna e si carezzò le guanciotte soddisfatto; la segretaria italianizzò le quattro pagine e mezzo di testo che il capo le aveva appena dettato e chiamò un Pony Express perché le consegnasse alla redazione de La Finzione. A metà pomeriggio il giornalista chiamò al telefono il vicesindaco per liberarlo da ogni dubbio:

«Dottor Ceccanti i miei rallegramenti, il dinamismo della sua Amministrazione regalerà grandi soddisfazioni ai pasticcesi e io sarò lieto di tenerli sempre aggiornati. La disturbo per rassicurarla che domani pubblicheremo l’articolo che ho appena ricevuto. Ho pensato di non metterlo in Cronaca ma fra le pagine di economia, poiché sono convinto che la sua gestione del Municipio produrrà risvolti epocali per la nostra città».

«La ringrazio dottor Faria, la sua fattiva collaborazione rende sempre più percettibile la serenità che aleggia nella nostra cittadina».

«La mia professione, come lei mi insegna, mi impone di dare ai lettori la percezione quanto più realistica possibile delle varie questioni affrontate nei miei articoli, per questo non mi sono permesso di cambiare nemmeno una virgola al testo che mi ha fatto recapitare. Ogni mia modifica, come lei mi insegna, lo avrebbe snaturato facendogli perdere schiettezza e, il rispetto che ho verso i lettori, non me lo consente».

Altre due o tre smielate reciproche e indegne di menzione condussero a conclusione la telefonata.

*****

«Ma adesso basta guardarsi indietro» quasi urlò il Ceccanti preda dell’euforia. Davanti a lui, seduto su una pila di confezioni di garze sterili, Raimondo Pinzagli aveva in mano una copia de La Finzione, fresca di stampa, aperta sulle pagine economiche:

«Per quello che mi riguarda possiamo procedere con i passi successivi» sintetizzò, prima di passare agli aggiornamenti dettagliati.

Dire che Raimondo Pinzagli in quel periodo si sentiva al settimo cielo sarebbe riduttivo: dopo una giovinezza dissipata in caotica immobilità, molti aspetti della sua vita, e non solo dal punto di vista professionale, si andavano finalmente a incastonare nelle caselle giuste… a cominciare da Mara. Raimondo aveva iniziato a corteggiarla esattamente l’estate di nove anni prima; esattamente un istante dopo averla conosciuta. Lo aveva fatto con la massima determinazione nei brevi e frequenti periodi in cui lei era libera, fra un fidanzato e l’altro; in maniera più blanda quando era, o si definiva, impegnata. Tutte quelle cene a lume di candela e serate noiose nei locali più costosi di tutto il litorale e di mezza Liguria, però, adesso stavano dando i loro risultati: il tiro in porta non c’era ancora stato ma, dal numero di elastici e ganci automatici che avevano ceduto fra le mani di Raimondo, era evidente che fosse stato superato il punto di non ritorno.

Come se non bastasse, aveva comprato la cabriolet svedese che da tanto tempo sognava senza potersela permettere. L’idea di intestarla alla Cli.de.c. comportava diversi vantaggi fiscali, senza che le rate gravassero in maniera determinante sul pur limitato giro d’affari della ditta. Il Soprassata, in quanto finanziatore della piccola società, era stato consultato e pur non comprendendo che modello di macchina fosse, approvò senza riserve l’investimento: da una parte costituiva un ulteriore incentivo al già ottimo lavoro svolto dal Pinzagli; dall’altro, contribuiva al consolidamento dell’immagine del ragazzo e l’immagine, volenti o nolenti, nell’intelligenza collettiva si traduce in credibilità. Non dimentichiamo che ci stiamo trovando in provincia di Parvenze.

A onor del vero, di tanto in tanto, per la testa di Raimondo il pensiero che ci fosse un legame fra la macchina scoperta e il cedimento dei ganci e degli elastici di Mara, passò. Ma ogni volta lo cacciò via senza approfondire. Quello invece su cui trovava piacere nel soffermarci il pensiero era che, intanto, in tutta Pasticci, e anche nei quartieri che contano di Parvenze, cominciava ad essere conosciuto e tenuto in debita considerazione. E non gli dispiaceva nemmeno quel nomignolo, L’Ingegnere, con cui molti avevano preso a chiamarlo. Certamente non era per il titolo di studio che non aveva e forse, al momento, suonava anche un po’ caricaturale e canzonatorio nei confronti dell’atteggiamento che aveva assunto. Ma quello attuale per Raimondo era solo un passaggio necessario e, il soprannome che gli avevano affibbiato, calzava alla perfezione con il ruolo che si stava costruendo addosso.

E poi c’era l’aspetto puramente professionale e strategico, quello su cui stava ragguagliando il vicesindaco nel retrobottega della farmacia, seduto come lui su una montagna di scatole di garze sterili:

«La Cli.de.c. ha assolto egregiamente al suo compito; c’è voluto solo un po’ più tempo del previsto ma la missione possiamo considerarla conclusa».

 *****

Alla fine degli anni Quaranta la tenuta agricola dei Marchesi della Staffa si estendeva in un senso da Pasticci fino al fiume e, nell’altro, per alcuni chilometri a cavallo del torrente Grave. Tutti i poderi che la componevano erano condotti da altrettante famiglie di mezzadri, più o meno numerose a seconda dell’estensione dei poderi stessi. Col nuovo decennio però i Marchesi decisero di orientare i loro interessi economici verso l’acquisto di importanti palazzi storici di Parvenze ritenuti, con azzeccata lungimiranza, più redditizi dei terreni agricoli. Per questo motivo, a partire dal millennovecentocinquantuno, i nobili possidenti di Pasticci iniziarono la dismissione dei rapporti di mezzadria trasformandoli in alcuni casi, pochi per la verità, in contratti d’affitto. Questa nuova condizione riguardò le famiglie che non avevano la possibilità di riscattare il podere su cui erano stabiliti e comprendeva, oltre al campo, la colonica con tutti gli annessi e le attrezzature. Gli altri ex-mezzadri invece, acquistato suolo e soprassuolo, divennero coltivatori della propria terra. In entrambi i casi, la prosecuzione del lavoro colonico come mestiere principale riguardò solo le generazioni più anziane, mentre i giovani apportavano il loro contributo all’antica attività dopo aver lavorato otto ore in fabbrica.

Ovviamente nessuno poteva prevedere che i terreni improduttivi ai lati dello sbocco del Grave, quaranta anni più tardi, sarebbero diventati edificabili. Per questo nessuno li voleva… e tanto meno i Marchesi della Staffa se li volevano tenere. Alla fine fu trovata una soluzione che mise d’accordo tutti, aristocratici e volgo. I due terreni, quello a forma di unghia e la montagnola di detriti e pancone di riporto, furono spezzettati in tante particelle quante erano le famiglie che stavano comprando i poderi e ognuna, come condizione imprescindibile, dovette accludere una di quelle particelle al proprio acquisto (i fighetti dicono Condicio sine qua non ma a noi i fighetti stanno sui coglioni).

Da allora, nella proprietà fondiaria, si sono succedute almeno due generazioni con altrettanti passaggi agli assi ereditari, dei figli prima e dei nipoti poi, comportando un’ulteriore frammentazione in appezzamenti dalle dimensioni molecolari. Ed ecco spiegato perché il compito del Pinzagli era stato un po’ più e complesso e lungo del previsto:

«Comunque nessuno si è rifiutato di venderci i terreni. Alcuni, forse più bisognosi o contenti di disfarsi di quella zavorra inutile che si portavano da due generazioni, hanno ceduto alla prima offerta. Altri, un po’ più vispi, hanno tirato sul prezzo ma era chiaro che non vedevano l’ora di concludere l’affare. Adesso manca solo di formalizzare gli ultimi due atti di compravendita, ma si tratta solo di incastrare gli appuntamenti dal notaio Burlamacchi che, per altro, ha blindato i contratti preliminari registrandoli e trascrivendoli in Conservatoria».

«Quest’ultimo aspetto è fondamentale» dichiarò il Soprassata «dal momento che con l’uscita della notizia sul giornale di oggi quei terreni valgono oro quanto pesano».

«Prima di iniziare i rogiti, anche su consiglio del notaio, ho provveduto a modificare lo Statuto della Cli.de.c.. I potrei dell’Amministratore Unico sono stati ridotti ai minimi termini: quelli inevitabili per legge. In pratica, l’amministratore che mi ha sostituito ha autonomia solo per l’ordinarietà legata allo scopo sociale, ovvero il commercio e il trattamento dei calcinacci». Raimondo ebbe un sogghigno di autocompiacimento non ricambiato dal vicesindaco. Proseguì: «Ogni attività che esula da ciò rientra nella “straordinaria amministrazione” e deve essere approvata dall’Assemblea dei soci… ovvero da me, poiché il Focardi, avendo eletto domicilio presso la sede legale della Società, non riceverà nemmeno le convocazioni».

L’altra questione che L’Ingegnere stava portando avanti parallelamente, era la fondazione del Consorzio:

«Hanno aderito in molti, dal proprietario di una cava a un’azienda che produce infissi. Il riscontro maggiore ovviamente lo abbiamo avuto fra le piccole imprese edili, che vedono nel consociativismo la possibilità di usufruire di una struttura che finora non potevano permettersi. Buono l’interessamento anche da parte delle aziende di medie dimensioni, desiderose di spartirsi le quote di mercato senza doversi scannare fra di loro in un massacro all’ultimo ribasso».

«Certo-certo; per far numero e gonfiare il volume d’affari in vista della gara d’appalto vanno benissimo. Però abbiamo bisogno anche di aziende con le spalle grosse, sulle quali scaricare le responsabilità di un’operazione enorme».

«Da Baldassarre, il più grosso costruttore di Parvenze, ho già ricevuto la lettera d’intenti con cui dichiara di volersi consorziare. Nei prossimi giorni invierò al suo consulente i documenti che ha chiesto di poter analizzare. L’altro grosso costruttore che ha dichiarato di aderire, per il momento solo a voce, invece è il Fognozzi di Pasticci: ho già pronta una scrittura privata da fargli sottoscrivere quanto prima, dopodiché anche lui sarà vincolato al nostro programma. Fra l’altro è lui il nuovo Amministratore Unico della Cli.de.c. quindi, in un modo o nell’altro, ormai è salito sulla barca e deve remare».

Il vicesindaco, prima di proseguire con la sua parte di aggiornamenti, si toccò di nuovo le guanciotte soddisfatto:

«Nemmeno i nostri uffici comunali sono stati con le mani in mano. L’Ufficio Legale ha pronte le lettere di esproprio da inviare alla Cli.de.c.: lo farà appena risulterà, dagli atti della Conservatoria Immobiliare, la proprietaria ufficiale dei territori di Unghiano e Montignano». Il Ceccanti si era fatto prendere talmente la mano dell’euforia che parlava con il linguaggio del Risiko. Proseguì: «L’Ufficio Tecnico invece, mentre la burograffia si divertiva a farci perdere tempo con l’approvazione della Variante al Piano Regolatore, ha redatto il progetto esecutivo per le opere di urbanizzazione primaria di entrambe le lottizzazioni». Prese fiato: «questo vuol dire che, appena formalizzati gli espropri, pubblicheremo il bando per l’assegnazione dei lotti da edificare in regime di Edilizia Convenzionata in conformità alla Legge “167” e, contemporaneamente, saranno attivate le procedure per appaltare la realizzazione delle opere di urbanizzazione».

«Che tempi prevedi?», domandò Raimondo.

«Vorrei che entrambi i bandi venissero pubblicizzati sulla stampa il primo fine settimana di agosto limitandone la divulgazione al minimo di legge, con obbligo di presentare le richieste d’invito, e le certificazioni relative, entro il venticinque dello stesso mese. Se non ce la dovessimo fare, come temo, faremo slittare tutto alle Feste di Natale. Quello che è certo è che non voglio decine di concorrenti fra i coglioni».

«Farò in modo che il Consorzio sia operativo e dotato delle certificazioni per agosto, poi vedremo. Intanto ho trovato la sede e il nome: il Baldassarre ci mette a disposizione un ufficio nel seminterrato di un bel palazzo in viale Franco Leckner». Nel finire la frase per gli occhi del Pinzagli, solitamente spenti e inespressivi, passò un bagliore di luce «Il mio sogno è che un giorno quel palazzo diventi il quartier generale non solo del Consorzio, ma di tutta la costellazione di aziende che gli ruoteranno attorno».

«E il nome?» chiese il Soprassata mentre si alzava dimostrando tutto il suo disinteresse.

«Consorzio Imp.re.co.: IMPrese di REstauri e COstruzioni».

La riunione era finita.

 


 


 

Commenti

Post popolari in questo blog

LO SCRIVIAMO INSIEME?

"FA' PARLARE DI TE" - Concorso letterario senza classifica -

TENTATA RAMPA A PONTE A SIGNA!!!