DODICESIMO CAPITOLO - L'Iris che fa i miracoli

 

“…forza pischelli, ditemi quello che mi dovete dire, 

poi tornate a giocare che io c’ho da fare…”

Illustrazioni di Giacomo Carletti

Il giudice, serata stante, aveva provveduto a nominare gli avvocati d’ufficio sia per il D’Angelo che per il Parisi. Alle ore ventitré uno dei due non era ancora stato rintracciato; l’altro, causa impegni in essere, aveva garantito la sua presenza ma alla buon’ora della mattina successiva.

Intanto la caserma pareva diventata l’atrio di un pronto soccorso, tanto era il via vai dei congiunti dei due fermati: chi chiedeva di poter solo vedere l’uno o l’altro; chi voleva parlarci; chi voleva sapere come sarebbe finita quella storia e chi voleva consegnargli di tutto un po’, dai generi alimentari più disparati ad ogni sorta di arnese utile per l’igiene personale o ad alleviare quel soggiorno imprevisto quanto, pensavano, temporaneo, poiché ogni equivoco sarebbe stato chiarito certamente in tempi brevi.

Il comandante riuscì a respingere tutte le richieste con l’affabilità che lo contraddistingue. Accettò di scambiare qualche parola in privato solo con Gabriella e con il padre di Filippo. A fargli perdere le staffe erano state invece due telefonate ricevute, rispettivamente, dal vicesindaco e dal caporedattore de La Finzione. La telefonata del primo interlocutore (e secondo cittadino) dimostrò il totale disinteresse di quest’ultimo alla vicenda dell’omicidio e al seguito che stava avendo, puntando diretto come una freccia al nocciolo della questione che gli stava a cuore:

«Maresciallo, so che ha fermato uno dei nostri ragazzi che frequentano il circolo degli azzurri».

«Non mi risulta dottor Ceccanti». Il Caglioma, in un altro momento, si sarebbe divertito a meleggiare il Soprassata portandoselo virtualmente a spasso per il naso qualche decina di minuti. Ma quella non era serata e cominciava anche ad essere stanco: «Se si riferisce al Pirotti, lo abbiamo convocato in caserma come persona a conoscenza di particolari utili alla ricostruzione di un grave delitto del quale, immagino, avrà avuto notizia».

«Maresciallo, io volevo solo rassicurarla che i nostri ragazzi sono tutti perbene e di buona famiglia, il Pirotti poi… figlio del nostro tesoriere! …Mi sono permesso di chiamarla solo per dirle che il nostro circolo è un ambiente sano; se cerca lì le male abitudini perde il suo tempo».

«La ringrazio del consiglio dottore, mi riservo però di non farne buon uso» tagliò corto il maresciallo ma, sempre se si fossero trovati in circostanze differenti, avrebbe chiesto se fra le buone abitudine che i giovani imparano frequentando il circolo, rientrano anche il gioco d’azzardo e l’abuso edilizio… o forse, Nero Ceccanti, non sapeva che ogni secondo e quarto venerdì del mese, dopo l’orario di chiusura, sui tavolini del medesimo circolo insieme alle carte da poker e da toppa, fioccano i fogli da centomila lire come neve sul Passo del Pordoi? E ancora, forse non sapeva che nel giardino curato dal Ciabazzi, detto Centòri per il suo smisurato ottimismo al punto da non fargli vedere la realtà, era stata costruita una serra abusiva? Per ora aveva fatto solo una verifica degli atti senza però trovare la minima traccia di richiesta, tanto meno di autorizzazione, per l’edificazione della piccola costruzione. Oltretutto, a cosa serviva una serra in quel posto? Domanda che meritava una risposta… ma non ora, perché il telefono squillò di nuovo:

«Maresciallo, sono Lando Faria. Spero di non disturbarla».

«Un giornalista serio, che fa il suo lavoro come etica professionale comanda, non disturba mai».

«Ho saputo che l’inchiesta sull’omicidio del drogato ha avuto delle evoluzioni…»

«Per cominciare le dico che il signor Loiodice, a differenza di quanto supposto da lei e chissà sulla base di quali elementi, non era un drogato ma, probabilmente, uno spacciatore senza troppi scrupoli. Su quest’ultimo aspetto dobbiamo ancora fare piena luce, quello che invece posso dirle è che attualmente ci sono due persone sospettate di essere coinvolte nell’omicidio. Le stiamo trattenendo in stato di fermo in attesa di poterle interrogare con tutte le garanzie di legge».

«Quindi il caso è risolto… perché la gente, come lei m’insegna, è questo che vuol sentirsi dire».

«Se pensa che il suo ruolo sia scrivere quello che la gente vuol sentirsi dire si è rivolto al fornitore di notizie sbagliato: io posso solo raccontarle i fatti e, purtroppo, temo non coincidano con quello che i cittadini vorrebbero ascoltare. Comunque, se vorrà domani in tarda mattinata sicuramente avrò ragguagli maggiori. L’aspetto da me in caserma dopo mezzogiorno. Adesso la saluto».

Che per buon’ora l’avvocato del Parisi intendesse le cinque di mattina, il maresciallo Caglioma non se l’aspettava. Si aspettava invece un altro giorno intenso, e allora tanto valeva alzarsi e dare il via alla musica: mezz’ora più tardi era seduto nel suo ufficio; avvocato e cliente invece erano a colloquio nella salettina d’aspetto di fronte alla scrivania del piantone. Per quanto ne avrebbero avuto non era dato saperlo ma lui, sicuramente, non avrebbe acconsentito di riceverli prima di aver bevuto, in tutta tranquillità, il caffè che già stava salendo nella moka sul fornelletto elettrico. Ma visto che i due ne ebbero per quasi un’ora, il comandante ebbe anche il tempo di godersi, sporto dalla finestra fino a mezzo busto, l’oro che la mattina portava in bocca. Intanto, cercava di immaginarsi la scena in atto: l’avvocato che cercava di convincere il Parisi a confessare; il Parisi che tentava di convincere l’avvocato della sua innocenza.

In realtà, nella saletta d’aspetto, stava avvenendo esattamente l’opposto. Il legale d’ufficio cercava di dissuadere il suo assistito dall’intenzione di raccontare come si erano svolti i fatti, spiegandogli che, fino a quanto non avessero saputo cos’avevano fra le mani gli inquirenti, la strategia giusta era quella di prendere tempo; di non sbilanciarsi; di lasciare che fossero loro, i Carabinieri, a fare la prima mossa. Il falegname non ne volle sapere: voleva scrollarsi di dosso l’angoscia che gli premeva fin sulle vie respiratorie e, l’unica possibilità che vedeva per alleviarla, disse al suo difensore, era quella di raccontare a chi di dovere come erano andate le cose. Dopodiché, qualunque condanna avesse comportato la sua narrazione, sarebbe stata minore della sofferenza che stava patendo.

Aldo Parisi, robusto di una robustezza non-finta, figlia di anni di lavoro duro, comparve nel riquadro della porta accompagnato dal carabiniere di piantone. Dell’avvocato, omino piccolo dall’aspetto gracile, si vedeva sola una manina poggiata sulla spalla del suo cliente: tutto il resto era nascosto dalla figura possente del Parisi. Tutto il resto: ovvero un paio di occhiali enormi; una giacca che terminava a mezza coscia e una calotta di capelli nero corvino impomatati di gelatina, compresa la ricrescita biancastra a marcatura della scriminatura centrale.

Sergio Caglioma con un occhio studiava i due uomini che gli si stavano sedendo davanti; con l’altro osservava la lotta impari fra l’appuntato Mantovano, intento ad infilare nei rulli della macchina da scrivere cinque fogli, fra pagine bianche e carta carbone, e la stessa macchina che rifiutava di riceverli. L’avvocato, senza attendere che gli venisse proferita, prese la parola per dire che il suo cliente aveva maturato, su suo stesso consiglio, la convinzione di procedere con una dichiarazione spontanea. Il maresciallo, senza perdere di vista il Mantovano, disse che andava bene; dovevano solo avere un attimo di pazienza… poi, interpretato il sospiro di sollievo che comparve sul volto dell’appuntato, diede via libera all’esposizione del racconto.

Il fratello di Gabriella esordì dicendo che non volevano uccidere nessuno. Il Caglioma lo interruppe immediatamente per sapere lui e chi, giacché stava usando il plurale. Lui e Filippo, il fidanzato di sua sorella Gabriella, fu la precisazione inutile di Aldo Parisi, quanto formalmente necessaria alla verbalizzazione; dopodiché, l’esposizione non subì altre interruzioni.

Il racconto del falegname proseguì sostenuto solo dall’accompagnamento di sottofondo del Mantovano che ticchettava ritmicamente sui tasti della macchina da scrivere elettrica. Avevano già avuto altri litigi, anche molto accesi con il Loiodice, e tutti per via degli abusi che compiva su sua sorella. Venerdì sera erano partiti con l’intenzione di dargli una lezione pesante; una lezione che, nei loro intendimenti, avrebbe dovuto rimanergli in mente a lungo e che confidavano fosse risolutiva: insomma, l’idea era quella di intendersi una volta per tutte. La pistola se l’erano procurata, oltre che per essere convincenti, per autodifesa e non certo per offesa. Infatti, la vittima si vantava da un po’ di tempo di averci un’arma e a qualcuno, al bar California, si dice anche che gliel’avesse mostrata. I due cognati non sapevano quanto la diceria fosse attendibile ma, nel dubbio, si erano premuniti per fronteggiare qualunque reazione del balordo, come lo definiva il Parisi che, in tutta la confessione, non lo nominò mai né per nome e nemmeno per cognome. Il crik, invece, lo aveva prelevato dal cofano della 127 con la premeditazione di usarlo.

Aldo e Filippo, il giorno del fattaccio, andarono nel parcheggio interno ai condomini di via Venezia 9 a colpo sicuro, conoscendo la consuetudine maniacale con cui la vittima puliva la sua auto prima di ogni fine settimana. Il primo tentativo di approccio però andò male, perché Martino stava parlando con delle persone sedute dentro una Citroën tutta scalcinata. Per prendere tempo fecero il giro di due isolati; la macchina la guidava Filippo e Aldo, un paio di volte, lo redarguì perché tirava le marce in maniera esasperata dimostrando un eccesso di nervosismo: “bisogna stare calmi, hai capito?”. Al giro successivo il Loidice era da solo; stava mettendo in un secchio gli oggetti che aveva usato per le pulizie. Aldo scese dalla macchina per primo, prima ancora che fosse ferma; teneva la pistola davanti a sé, vicino all’inguine senza stendere il braccio perché potesse vederla bene il Loiodice ma non fosse troppo visibile da qualcuno che, sicuramente, stava seguendo la scena dalle finestre dei palazzi. La pistola doveva servire solo a quello: a far salire la vittima sulla macchina del babbo di Filippo senza tante storie e portarla nel luogo che avevano individuato per la “lezione.

Il luogo prescelto è un braccio di giardino stretto fra la facciata senza finestre che fa da lato corto a un condominio e il retro del capannone di una carrozzeria. Di giorno ci vanno i ragazzini a giocare a calcio; la notte invece è un luogo frequentato pochissimo e chi lo frequenta ha tutto l’interesse a non farlo sapere. Durante il breve tragitto, il Loiodice, probabilmente, valutò che Aldo non avrebbe avuto il coraggio di usare la pistola e tentò una prima reazione aggressiva nei confronti del guidatore; reazione che il Parisi aveva previsto e alla quale rispose con prontezza di riflessi colpendolo all’arcata sopraccigliare con il calcio della stessa arma. Martino Loiodice si riscosse quasi subito dallo stupore dovuto alla botta ricevuta a sorpresa, tutto sommato piuttosto leggera ma sufficiente a farlo desistere dal prendere altre iniziative del genere, almeno fino a che le sue capacità di movimento rimanevano limitate dal fatto di trovarsi seduto sul divanetto posteriore dell’autovettura.

Con la macchina andarono a fermarsi direttamente sull’erba del giardino. Nel frattempo, Aldo aveva passato la pistola a Filippo e impugnato il martinetto, precedentemente incastrato sotto il sedile del passeggero. Per uscire dalla 127 Martino dovette ricorrere alle consuete contorsioni imposte dalle autovetture che non hanno le portiere posteriori. Una volta uscito, con fare strafottente e provocatorio e dando le spalle ad Aldo, si preoccupò di sistemarsi la camicia nei pantaloni, come a voler dimostrare noncuranza per la ferita al sopracciglio dalla quale scendeva un piccolo rivolo di sangue, e al tempo stesso di non temere l’aggressione dei due uomini che lo avevano portato fin lì:

«Insomma» raccontò il Parisi, «era come se ci volesse dire “forza pischelli, ditemi quello che mi dovete dire, poi tornate a giocare che io c’ho da fare”».

Nella mente del falegname, forse anche per un solo istante, l’arroganza del Loiodice si sommò al pensiero degli abusi che da almeno due anni perpetrava su sua sorella: forse fu davvero solo un istante, ma sufficiente a fargli perdere il controllo della forza che stava trasferendo dal braccio al crik; dal crik alla nuca del disgraziato che aveva davanti. Il Parisi continuò il racconto come se fosse inebetito:

«No, non doveva andare così. Volevamo conciarlo per le feste e lasciarlo lì, fra la parete del condominio e il muro della carrozzeria. Ma ammazzarlo no!»

Intanto Filippo, con la pistola impugnata, aveva fatto mezzo giro intorno alla macchina per raggiungere Aldo. Chi può dire se fu l’aggressività di Aldo a dargli la carica o lo spavento nel percepire che la situazione era degenerata rispetto ai loro piani? Il fatto è che il D’Angelo, urlando come un indemoniato, scaricò su quel corpo steso a terra tutti i cinque colpi di cui disponevano. Aldo continuò il racconto:

«Filippo rimase fermo come un ebete con la pistola in mano; io invece non avevo ancora realizzato cosa avevamo combinato. Per scrollarlo dovetti dargli due schiaffi assestati bene. Poi, senza nemmeno pensare a quello che stavamo facendo, caricammo il corpo nel bagaglio e andammo a buttarlo in campagna. Nel frattempo stavo iniziando a prendere consapevolezza dell’enorme cazzata fatta».

Dopo essersi sbarazzati del corpo, Aldo e Filippo ridiscesero la collina per andare a riconsegnare la pistola. Filippo, dopo l’omicidio, non era in grado di guidare la macchina e lo fece Aldo. Quest’ultimo riaccompagnò il fidanzato di Gabriella a casa, parcheggiò la macchina nel posteggio condominiale e si raccomandò che la mattina venissero puliti con la massima cura sia il martinetto che il bagagliaio:

«Rassicurai Filippo che la Polizia non aveva modo di risalire a noi e tornai a casa a piedi». “La Polizia forse no, ma i Carabinieri sì”, pensò Sergio Caglioma con un pizzico d’orgoglio dettato dallo spirito di corpo.

Il maresciallo, che fino a quel momento aveva ascoltato senza interrompere, voleva sapere della pistola. Il falegname spiegò che l’avevano noleggiata per un’ora. Il loro contatto era un intermediario con cui si erano incontrati al campo nomadi:

«A Isolato Quarto lo sanno anche i muri come funziona».

«Io no; io non lo so» disse il carabiniere, «me lo spieghi lei». E il Parisi glielo spiegò:

«Ci rivolgemmo all’intermediario qualche giorno prima per conoscere le condizioni: cinquecento mila lire il noleggio della pistola pulita per un’ora; cento mila ogni proiettile fornito. I proiettili avanzati ci sarebbero stati rimborsati al cinquanta percento. Noi dovevamo stabilire giorno e ora per il ritiro…».

L’avvocato tentò di fermare il suo assistito, come se attenuare l’aggravante della premeditazione fosse ancora possibile:

«Signor Parisi, si tratta di dettagli ininfluenti sulla dinamica dell’accaduto». Il Caglioma però non era per nulla d’accordo:

«…Ma determinati per la prevenzione di crimini futuri» e, rivolgendosi di nuovo a Aldo, «vada pure avanti».

«Venerdì scorso, alle ore venti come fissato, ci recammo al campo nomadi. Il nostro intermediario ci stava aspettando all’ingresso: allungò la mano per prendere i soldi, un milione in contanti. Poi ci disse il luogo dove avremmo trovato il “corriere” per il ritiro della pistola. La riconsegna, entro un’ora, doveva avvenire allo stesso corriere. Il resto, per i proiettili eventualmente inutilizzati, potevamo passare a ritirarlo da lui il giorno successivo». Gli imprevisti allungarono i tempi preventivati per la “lezione” e, come se non fosse bastato l’accaduto, i due cognati, alla riconsegna della pistola, dovettero discutere pure con il corriere per aver sforato il tempo di noleggio pattuito.

***

L’arrivo del difensore d’ufficio del D’Angelo nel frattempo era stato gestito dal brigadiere Lovasco. L’avvocato si scusò per non essersi presentato prima: purtroppo il giorno precedente era fuori Parvenze per un seminario sulla criminalità organizzata e solo la mattina stessa, arrivato in ufficio, aveva ascoltato il messaggio lasciatogli dal giudice nella segreteria telefonica. In conclusione, si era presentato appena possibile.

Non certo definibile un pezzo d’uomo ma, sicuramente, se messi a paragone, avrebbe sovrastato di diversi centimetri in altezza il legale del Parisi. A fare la differenza fra i due forensi era però l’aspetto del secondo arrivato, molto più convincente: la capigliatura rasata, per non dare soddisfazione a una calvizie invadente, metteva in risalto la testa mobile come quella del merlo, pronta a non farsi sfuggire alcunché; gli occhi neri e svegli li teneva puntati con sicurezza in quelli dell’interlocutore e l’accento, vagamente meridionale, metteva in risalto una parlata forbita e chiara, professionale e diretta al tempo stesso. Prima di suonare al portone della caserma, aveva spento la sigaretta stroncando con due dita la parte ardente. Adesso, seduto nella saletta d’aspetto e passandosi il mozzicone dalle dita alla bocca e dalla bocca alle dita, l’avvocato Calabrò consigliava al suo difeso di assumere un atteggiamento collaborativo, sicuramente più producente della reticenza, della negazione o, ancor peggio, di una falsa esposizione degli avvenimenti.

Il D’Angelo si attenne al consiglio ricevuto. A differenza del Parisi, parlò davvero poco e non solo perché il suo complice aveva già detto tutto quello che c’era da raccontare; piuttosto perché dal momento in cui il Loiodice cadde a terra colpito alla nuca, fino a quando lo stesso Parisi lo riaccompagnò a casa, la testa di Filippo era quasi completamente vuota di ricordi: solo qualche immagine scomposta.

Di quel poco che disse niente andava in contraddizione con quanto dichiarato in precedenza dal complice; dichiarazione della quale confermò ogni contenuto.

Le due confessioni portarono via complessivamente parecchio tempo; più di quello che era servito alla Polizia Scientifica per fornire ai Carabinieri di Pasticci i primi risultati emersi dai referti esaminati, avvalorando il contenuto delle dichiarazioni rilasciate dai due sospettati. Il crik era stato ripulito accuratamente, ciò nonostante alcune microscopiche tracce organiche, compatibili con i tessuti della vittima, erano state rinvenute negli interstizi nelle seghettature del piedino d’appoggio. Piccole tracce di erba e di concime, entrambe dello stesso tipo prelevato dagli abiti del Loiodice, erano invece presenti nel bagagliaio della Fiat 127 mentre, quantità più rilevanti sia dell’una che dell’altro, erano state prelevate all’interno degli archi passaruota della stessa autovettura. Inoltre, la scolpitura dei pneumatici dell’auto del D’Angelo, coincideva perfettamente con il calco di una delle impronte rilevate la mattina del ritrovamento del cadavere.

***

La scadenza che il maresciallo e il giudice si erano dati era stata rispettata con un anticipo di una mezz’oretta cosicché, a mezzogiorno, lo stato di fermo dei cognati era già stato tramutato in stato di detenzione. Il trasferimento in carcere lo avrebbero organizzato per il primo pomeriggio, tanto non scappava niente. E nemmeno nessuno! Qualcuno intanto aveva suonato nuovamente al portone della caserma.

Il Caglioma si era dimenticato completamente di aver invitato Lando Faria per quello stesso giorno e a quella stessa ora. E infatti, il caporedattore non si presentò: al suo posto aveva inviato un inviato (definizione appropriatissima!).

Il giovane corrispondente, iscritto alla facoltà di lettere con indirizzo giornalismo, spiegò al comandante della stazione il motivo della sua presenza (oltre quello di pagarsi l’università scrivendo articoli sotto ai quali altri avrebbero apposto la propria firma):

«Il caporedattore la prega di scusarlo: impegni precedenti gli impediscono di presenziare a questo appuntamento. Comunque, ha incaricato me di scrivere un resoconto sull’esito delle indagini che hanno portato all’individuazione dei colpevoli e alla soluzione del caso Loiodice».

Al Caglioma, quel giovane con il taccuino in una mano e la penna nell’altra, sicuro di sé ma senza travalicare nella spavalderia o nella maleducazione, ispirava simpatia e partì con un riassunto delle ultime due giornate sorvolando su ben pochi particolari. L’aspirante giornalista lo lasciò parlare per un po’, poi lo interruppe:

«Maresciallo, il caporedattore con me è stato chiaro: “l’articolo uscirà sul giornale di domani, esattamente ad una settimana di distanza dal giorno dell’omicidio, e un fatto di cronaca dopo una settimana è vecchio…» guardò il comandante quasi a chiedere comprensione e concluse: «insomma, mi ha concesso mille battute… compresi il titolo e il catenaccio».

Mille battute compresi gli spazi, e nemmeno un di più il Faria ne avrebbe pubblicata; tantomeno una di più sarebbe stato disposto a riconoscerla al giornalista in erba, pagato, per l'appunto, un tanto a battuta! 




 

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